mercoledì 29 febbraio 2012

E' in dirittura di arrivo il laboratorio serale di Pittura Acrilica iniziato a gennaio nella sede UTE di Sacile. Nelle foto, la dott.ssa Stefania Dal Mas, esperta di pittura, restauro e mosaico, attorniata dai partecipanti al corso con alcuni dei loro lavori.




Una poesia in dialetto sacilese

Tabby


Una bicicleta che frena davanti al cancel
el campanel che sona, vae sul portel.
Un miagolio vien fora da ‘na cestina
meto una man so la to testina.

“I me l’à butà stamatina in tel cortivo,
no posso tégnerlo, gò un can cativo.”
“ So che ghe piaxe i gati” dixe la me vicina
gò pensà a ela par sta bestiolina.

“Basta gati in sta casa” dixe me marìo
 “aven xa Piggy che ne fa un desìo.”
El miagolio a l’è talmente forte
che decido de paca de cambiar la to sorte.

Te ciapo in brasso, te caresso i pei driti
arriva Piggy, oddio semo friti.
Te meto par tera, te pianxe da mati,
ma Piggy te leca e ti te te cati.

Do cestine afiancae, un piato in comun
ste sempre insieme, fe tuto un fiorùn.
Ma ti te smiagola par bisogno de afeto
te cori de sora e te te mete sul leto.

Tra mi e ti faxen grandi ciacolae
co go finìo te digo. “Mi vae.”
E fasso finta de andar zo par la scala
te me varda stranìo: ”Ma cossa fala?”

Co no te ne vede par più de un zorno
te ne tien el muso co sen de ritorno.
E se te manca all’appello sera o matina
‘nden a sercarte fin in cantina.

Do cocole sul tapeo intant che prepare
te me core drìo gnanca fusse to mare.
Te se un de fameia a tuti i efeti
e noi te tratèn a wiskas e baxeti.
                        
Lucia Accerboni

Con questa poesia sul proprio gatto, la nostra Lucia ha vinto il secondo premio a Trieste, qualche anno fa, nella sezione poesie dialettali, in un concorso nazionale che aveva come tema i gatti.

Errata corrige: avevo scritto che la poesia è in dialetto triestino, ma la Lucia mi ha pregato di correggere, si tratta di dialetto sacilese, perché, ha aggiunto, non si sa mai che i gatti triestini se la prendano  a male. Grazie per la segnalazione.

martedì 28 febbraio 2012

giovedì 23 febbraio 2012

BENE! Con il mese di febbraio è iniziato il Corso di spagnolo, una lingua indispensabile per chi vuole visitare la Spagna e molti paesi sudamericani. Nelle foto alcuni iscritti con seduta al centro la prof.ssa Silvia Isabel Genovese.


BUENO! Con el mes de febrero comenzò el curso en espanol, un idioma indispensable para aquellos que deseen visitar Espana y varios paises de América del Sur. En las fotos con algunos de los miembros, en el centro la profesora Silvia Isabel Genovese.

Foto, commento e traduzione di Adriano Toffolon, allievo di un precedente corso di spagnolo

mercoledì 22 febbraio 2012

 Lavandaie, portinaie, operaie, segretarie di un’epoca vicina eppur lontana

Quelli di noi che hanno, ahimè, i capelli bianchi ricordano che prima dell’avvento della lavatrice, praticamente prima degli anni Sessanta, il lavaggio dei panni era un problema. Nelle case più o meno borghesi si svolgeva il rito, per lo più settimanale, della venuta in casa di una lavandaia, che, da noi, quasi sempre proveniva dall’hinterland sloveno.In tempi ancora precedenti, nei secoli scorsi e  fino agli anni ‘20 del Novecento, era consuetudine che le lavandaie si recassero dai clienti a prelevare i panni sporchi che riportavano dopo averli lavati. Queste lavoratrici erano numerose e sicuramente la loro attività contribuiva molto ad attenuare la cronica crisi occupazionale della nostra collettività. 
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale entrò come lavandaia a casa nostra la signora Anna e vi rimase fino agli inizi degli anni ’60, quando, per raggiunti limiti di età venne sostituita da una gloriosa Candy. Le lavandaie erano in genere donne che arrotondavano in questo modo il magro stipendio del marito il quale, il più delle volte, ne spendeva la maggior parte in osteria. La nostra signora Anna era una di queste ed oltre ad avere un marito di tal sorte, ne doveva subire spesso le intemperanze, di cui portava i segni (e non era l’unica, ne conoscevamo un paio che facevano più o meno la stessa vita). La lavandaia, in genere, passava l’intera giornata a casa della famiglia in cui prestava la sua opera fino a diventarne, a lungo andare,  quasi un membro effettivo. Si instaurava così un rapporto talmente stretto che la “padrona”, se così si può chiamare, ne diventava la confidente. La lavandaia era generalmente una donna robusta e di buona salute. La nostra signora Anna arrivava da noi il lunedì mattina e se ne andava a pomeriggio inoltrato. Mia madre le preparava l’orna (grande mastello in ferro zincato) con la banchiera già in ammollo, che Anna insaponava e sbatteva energicamente sulla tavola da lavare. 
Mentre lavorava raccontava a mia madre le sue vicissitudini familiari, ma sempre in modo sereno, quasi con rassegnata accettazione della sua condizione. A metà mattina c’era un break: mamma preparava un robusto panino con il prosciutto ed un bicchier di vino, che lei beveva tutto d’un fiato. Pranzava con noi e trattava mio padre con il rispetto che giudicava dovuto al suo datore di lavoro. Prima di riprendere il lavoro, appena mio padre se n’era tornato in ufficio, saliva da noi la portinaia a portarci la posta ed a fare quattro chiacchiere, La signora Teresina incarnava il perfetto prototipo della portinaia. Ciarliera, impicciona, controllava chi entrava ed usciva, sapeva tutto di tutti ma era benvoluta dagli inquilini. Aveva un marito che era la fotocopia di quello della signora Anna e talvolta gli inquilini dovevano andar a sedare le liti. Anche lei a tempo perso faceva la lavandaia, ma mia madre non la giudicava all'altezza della signora Anna (usava poco sapone, sbatteva poco la biancheria ed eccedeva in prodotti sbiancanti che, a lungo andare, bucavano la biancheria, perché troppo aggressivi). 
Le portinaie di una volta...
Oltre a fare il normale lavoro di portineria scopava e lavava le scale e, all’occorrenza, faceva piccole commissioni per gli inquilini. Fungeva talvolta anche da baby sitter: io adoravo andare dalla signora Teresina quando mia madre doveva andare dal dentista. Mentre io facevo i compiti, lei mi raccontava un sacco di storie della sua gioventù e mi aiutava a fare i lavori a maglia che la maestra ci dava per casa, essendo io negata per questo tipo di attività. La signora Teresina continuava ad essere una fervente monarchica: sui vetri della credenza, in cucina, erano infilate le foto della regina Elena, del re Umberto e della regina Maria José.  C’era anche la foto del suo primo marito, della Madonna addolorata e del Sacro Cuore. L’uso di infilare foto e santini nei vetri della credenza era una cosa normale, all’epoca; tutto ciò è sparito con l’avvento della cosiddetta “cucina americana”. Finita la visita della signora Teresina, la signora Anna continuava la “lissia” e quando arrivava all’ultimo risciacquo versava nell’acqua una polvere azzurrante, il famoso PERLIN, che dava alla biancheria un effetto sbiancante. Prima di andarsene, mentre mia madre le preparava un caffè corretto grappa, prendeva accordi con la mia santola di cresima, che abitava sul mio stesso pianerottolo, per andare a fare il bucato da lei. Mamma, oltre alla giusta mercede, infilava nella borsa della signora Anna un sacchetto di caffè Hausbrandt ed un pacco di zucchero, raccomandandole di tenerli fuori dalla portata del marito che, altrimenti, non le avrebbe dato i soldi per comprarne ancora.
La mia santola faceva la capo-reparto in un laboratorio che produceva wafers, praline al cioccolato, gianduiotti ed altri prodotti dolciari. Il personale era tutto femminile e lei lo coordinava con pugno di ferro. Bravissima anche nel lavoro di pasticceria, non tollerava indolenze o prese di posizione autonome da parte del personale. A fine giornata controllava che i macchinari fossero stati tutti ben puliti e messi in sicurezza,  che il prodotto fosse stato inscatolato a dovere (solo dopo si poteva chiudere le scatole), che il laboratorio fosse stato pulito e lavato, pronto per la giornata successiva. Al mattino, prima di iniziare il lavoro, cuffiette e grembiuli delle operaie dovevano essere immacolati e nessun capello doveva fuoriuscire dal copricapo. Non era molto amata dal personale per questa sua rigidità, ma sicuramente aveva ben in mente quali fossero i criteri da adottare per garantire un lavoro fatto a regola d’arte. Non avrebbe sfigurato in nessuna delle industrie del giorno d’oggi, dove l’efficienza è richiesta a tutti i livelli. Avendo sempre lavorato, aveva aumentato il ritmo dopo la separazione dal  marito, ma giudicava l’indipendenza economica della donna assolutamente irrinunciabile, anche se sposata. Come lei ragionavano anche alcune amiche di mia madre che lavoravano pur non avendone bisogno. Negli anni ’50 lavoravano generalmente solo le donne che ne avevano assoluta necessità, per  lo più appartenenti al ceto basso, mentre le altre, se lo facevano, era solo “per togliersi qualche capriccio”, come diceva mia nonna.

Segretaria con una  Remington
Nel laboratorio diretto da mia santola c’era anche una segretaria. Aveva un ufficio che, da un lato si affacciava sul corridoio d’entrata, in modo da vedere chi entrava ed usciva, e dall’altro dava direttamente sul laboratorio vero e proprio. Non aveva quindi finestre in quanto collocato proprio all’interno del locale e
necessitava quindi di luce artificiale. All’epoca giudicavo la soluzione alquanto infelice, senza sapere che la teoria degli uffici posti direttamente “in fabbrica” sarebbe stata adottata a partire dagli anni ’90 prima dalla Fiat e poi, ahimé, anche dall’Electrolux. Adoravo stare nell’ufficio della segretaria. La signorina Elsa lasciava che me ne stessi seduta, in silenzio, ad osservare il suo lavoro. Ricordo che c’era una scrivania (un “pulto”) di legno massiccio con i cassetti ai lati e  con sopra una cartella ricoperta di carta assorbente, la boccetta dell’inchiostro con la penna, i timbri, il tampone assorbente, una lampada da scrivania, matite, gomme da cancellare, carta per machina da scrivere, carta carbone e carta velina per le copie. La macchina da scrivere, una Remington, troneggiava a fianco. La signorina Elsa batteva a macchina velocemente (solo in seguito avrei imparato a mie spese quanto bisognava pestare sui tasti, prima dell’avvento della macchina da scrivere elettrica). Il telefono, nero, alto, stava su un tavolino a parte. Dietro, alle spalle della signorina Elsa c’era un mobile in legno massiccio con chiusura a serranda che fungeva da archivio. I raccoglitori, di cartone, legati con le fettucce, portavano etichette indicanti il contenuto ed alcune cartelline sciolte stavano sugli scaffali in basso.

Donne in una fabbrica di dolci
Ad ogni apertura della porta del laboratorio, un campanello suonava nell’ufficio, cosicché la signorina Elsa controllava subito chi fosse il visitatore, in modo da annunciarlo al suo capo nonché proprietario, che  quasi sempre stava dando una mano alle operaie. La signorina Elsa vestiva un grembiule nero di satin, chiuso ai polsi con gli elastici, unico vezzo un collettino di pizzo fatto da lei, che dava un po’ di luce al suo viso. Sempre sorridente, amava il suo lavoro e certamente non aveva la settimana corta né usciva dall’ufficio ad ore decenti, mentre le operaie avevano un turno di lavoro prestabilito (che, comunque, era un turno lungo).
Se non c’era il padrone, le operaie potevano chiacchierare o anche canticchiare, ci pensava comunque mia santola a controllare che il ritmo di lavoro non ne risentisse. A detta di mio padre, i dipendenti erano ben pagati, rispetto alla media di altre piccole aziende e tutti in regola con i contributi (cosa, questa, piuttosto rara all’epoca, a meno che uno non lavorasse in una grossa azienda). Con l’avvento dei prodotti dolciari fatti e distribuiti dalle grandi aziende, i piccoli laboratori erano destinati a sparire. Il gusto di quei wafers e di quelle praline al cioccolato restano, per me, inimitabili. E quando alle esposizioni di antiquariato vedo in vendita scrivanie ed armadi a serranda, di noce (ce ne sono ancora e di molto belli), con calamai e quant’altro, il mio pensiero va sempre a quell’ufficio, di cui mi sembra di risentire ancora l’odore, che ha fatto da sfondo ai miei sogni di bambina.                                         
                                                                                                                   Lucia Accerboni                                

lunedì 20 febbraio 2012

Retro... Scenario: rinviata la presentazione letteraria di venerdì 24 febbraio

L'ultima commedia in gara, presentata venerdì scorso al Teatro Ruffo di Sacile dal gruppo Teatro Roncade, sbaraglia la concorrenza e vince il premio del pubblico della stagione “Scenario 2012”, cartellone invernale del Piccolo Teatro Città di Sacile. “No te conosso più”, divertente rilettura in salsa veneta della famosa pièce di Aldo De Benedetti, ha totalizzato infatti il punteggio di 9,10 balzando quindi in testa alla classifica di una rassegna che ha decretato comunque un alto gradimento per tutti gli spettacoli in cartellone, dai testi dialettali a quelli in lingua, dal repertorio napoletano di Eduardo De Filippo alla graffiante ironia “very british” di Clive Exton. Successo dunque per questa prima sperimentazione di coinvolgimento diretto del pubblico in sala, che ha manifestato attenzione ed interesse crescenti sia per il semplice meccanismo di voto, sia per l'opportunità di aggiungere qualche riga di recensione agli spettacoli visti in teatro. 
La stagione del Piccolo Teatro tuttavia ha ancora un serbo alcuni appuntamenti dedicati ad eventi di formazione e cultura teatrale, che ripropongono anche quest'anno la felice sinergia con l'Ute-Università della Terza Età di Sacile e AltoLivenza e con la Biblioteca Civica “Romando Della Valentina”.

Dal 6 marzo, tutti i martedì del mese, ripartono le lezioni pomeridiane di Storia del Teatro per i Soci Ute presso la nuova sede dell'ex-Pretura, con il Corso tenuto dalla Presidente del Piccolo Teatro, Chiara Mutton, che presenterà intrecci e contaminazioni tra il teatro di prosa ed altre forme di spettacolo dal vivo: musica, danza, lirica. E' stato invece rinviato l'appuntamento d'Autore previsto per il 24 febbraio a Palazzo Ragazzoni, nel programma degli eventi promossi dalla Biblioteca Civica. Purtroppo infatti la presentazione del volume di poesia “Segni particolari” di Antonio Di Foggia, con interventi critici ed artistici, oltre alla presenza delle “voci” del Piccolo Teatro, è al momento sospeso a causa di un'imprevista indisponibilità dell'autore e sarà quindi riproposto in altra data. In corso di definizione anche la visita guidata a Venezia all'archivio di Eleonora Duse presso la Fondazione Cini. Informazioni ed iscrizioni, dal mese di marzo, ai recapiti Ute: tel. 0434 72226 - mail: utesacile@uniterzaeta.191.it

Per aggiornamenti ed informazioni, si può anche visitare il sito web: www.piccoloteatro-sacile.org
Un ringraziamento particolare a tutti i "critici" delle serate: alcune recensioni sono state selezionate per la pubblicazione on-line nel sito del Piccolo Teatro, mentre tutte le note raccolte saranno trasmesse, insieme alla media voti, alle Compagnie che hanno partecipato alla Stagione.
Complimenti e arrivederci a tutti!

sabato 18 febbraio 2012

Impazza il Carnevale

La 49ª edizione della SFILATA CARRI ALLEGORICI E MASCHERE sarà organizzata con ingresso libero e saranno contattate Associazioni, Enti, Istituti Scolastici, Privati, Associazioni Pro Loco del Friuli Venezia Giulia e del Veneto, Scuole Materne, Gruppi spontanei, Gruppi musicali.
La sfilata si svolgerà nelle vie cittadine con il seguente percorso: Via Martiri Sfriso, Via XXV Aprile, Piazzetta IV Novembre, Via Garibaldi, Piazza del Popolo, Via Cavour, Largo Salvadorini, Via Zamboni, Via Gardini, Viale Zancanaro, Largo San Liberale, Viale Trieste, Via Zamboni, Via Cavour, Piazza del Popolo, Via Garibaldi, Piazza IV Novembre, Via XXV Aprile, Via Martiri Sfriso.
Alla sfilata parteciperanno privati e gruppi spontanei mascherati che si inseriranno nel corteo in Via Martiri Sfriso.
Image and video hosting by TinyPicImage and video hosting by TinyPicImage and video hosting by TinyPicImage and video hosting by TinyPic

giovedì 16 febbraio 2012

CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE - terza parte

SATEE o SATI - IL BAGNO DI FUOCO
India
Satee (o Sati): altro retaggio di secoli fa è il Satee, immolazione delle vedove indiane sulla pira del marito. Ufficialmente, in tutti gli stati/regni dell'India, questa usanza  era stata abolita entro la fine del 1800, e l'ultima legge al riguardo, emanata in India nel 1987, prevede la pena di morte per chi costringe, con la forza o meno, a commettere Satee.  Nonostante ciò, vengono ancora segnalati - di tanto in tanto - alcuni casi in zone rurali molto isolate dove la povertà è  estrema e l'alfabetizzazione bassissima. Va ricordato che in queste realtà la donna è di proprietà prima della famiglia di origine poi passa a quella del marito:  rimanendo vedova è di 'nessuno', non è in grado di mantenersi e per tradizione passa di proprietà a un altro membro maschio della famiglia del marito:  si può solo immaginare con che trattamento. Per questo  motivo, nel passato, questa pratica era molto diffusa anche perché le donne, vista la loro condizione, preferivano morire piuttosto che diventare proprietà di altri, con la prospettiva di una vita ancora più miserabile. Spesso comunque, allora come oggi, le donne sono costrette con la forza a subire il Satee.

                                                                                             Maria Bortoluzzi  - continua

mercoledì 15 febbraio 2012


Ultimo atto venerdì 17 febbraio per la rassegna “Scenario”, stagione di spettacoli ed eventi proposta dal Piccolo Teatro Città di Sacile, quest'anno con la novità della gara che vede sfidarsi le Compagnie ospiti attraverso il gradimento espresso dal pubblico. Mentre il gruppo di Padova Teatro porta a casa il lusinghiero punteggio di 8,75, il palcoscenico del Teatro Ruffo si prepara ad accogliere l'ultimo spettacolo in lizza, la commedia “NO TE CONOSSO PIÙ”, divertente rilettura dialettale del - quasi - omonimo testo di Aldo De Benedetti, adattato dalla penna di Gigi Medegan. Saranno gli attori di Teatro Roncade, diretti da Alberto Moscatelli, a portare in scena questa divertente trama, riambientata nella Treviso anni '60. In casa Malipieri, borghese salotto cittadino, scoppia improvvisamente il dramma: Luisa non riconosce più il marito Paolo e anzi, ritenendolo un intruso, vuole cacciarlo di casa. Il professor Pierferdinando Spinelli, psichiatra, illustre clinico e scapolo, prova a dipanare la matassa, diagnosticando un temporaneo vuoto di memoria. 
Ci vogliono dunque pazienza e tranquillità. Ma quando arriva dall'Inghilterra l'invadente zia Clotilde, aspirante scrittrice con figlia Evelina al seguito, gli equivoci si sprecano, il matrimonio vacilla e il finale sembra scontato. Per fortuna però, in Teatro spesso arriva un colpo di scena che spariglia le carte e rimette tutto in gioco.

Inizio spettacolo ore 21, con biglietteria aperta a partire da 45 minuti prima del sipario.
Info ai recapiti dell'Associazione: tel, segreteria 366 3214668 (da lun a ven in orario 17-19) oppure web:www.piccoloteatro-sacile.org.

martedì 14 febbraio 2012

LETTERATURA ITALIANA

la prof.ssa Pier Paola Busetto
Con la seconda lezione sul romanzo storico in Europa e in Italia fra l'800 e il '900, a cura della professoressa Pier Paola Busetto, insegnante di lettere ed esperta di cinema, abbiamo assistito anche alla seconda parte della proiezione del film Il Gattopardo, film drammatico del 1963, diretto da Luchino Visconti, e tratto dall'omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che narra la storia del Principe di Salina, in una Sicilia borbonica al tramonto.

L'autore del romanzo trasse ispirazione dalle vicende di vita di suo bisnonno il Principe Giulio Fabrizio Tomasi, vissuto negli anni cruciali del Risorgimento. Nel maggio 1860 dopo lo sbarco a Marsala in Sicilia di Garibaldi la classe dei nobili capisce che è ormai prossima la fine della loro superiorità. Il connubio tra la nuova borghesia e la declinante aristocrazia è ormai inconfutabile, ma molte famiglie aristocratiche si preoccupano più che altro della loro posizione, cercando di far volgere gli eventi che incalzano a loro vantaggio, combinando, dall'alto di quel poco potere loro rimasto, matrimoni di figlie o nipoti con famiglie non certo di antica nobiltà ma sicuramente con un notevole patrimonio.



Scritto tra il 1954 e il 1957,  il titolo del romanzo ha l'origine nello stemma di famiglia dei Tomasi, ed è così commentato nel romanzo stesso: «Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore continueremo a crederci il sale della terra.»
 Fu pubblicato dopo la morte dell'autore nel 1958 da Feltrinelli. Nel 1959 riceve il premio STREGA divenendo il primo best-seller italiano con 100.000 copie vendute. 
Nel 1963 Luchino Visconti lo tradusse nel film omonimo, con un cast di attori come Burt Lancaster, Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa, Ottavia Piccolo e Romolo Valli.

domenica 12 febbraio 2012

NEVICATA

Immergi le dita
nel soffice manto.

Ruba alla candida neve
i suoi gelidi cristalli.

Nella tua bocca
saranno fuoco e acqua.


Assapora lentamente
il gusto dell’infanzia.

Chiudi gli occhi
e vedrai cose mai viste.

Scenari incantati
per un uomo-bambino.

Figure stilizzate
di un lontano passato.

Prepotenti presenze
nella luce invernale.

Silenzio assoluto
tra abeti imbiancati…


Titti - Sacile 11-2-2012



venerdì 10 febbraio 2012

Ritratto a lume di candela

Giovanna aprì il portone e si ritrovò nell'atrio dello stabile; notò che la passatoia che portava fino all'ascensore era stata sostituita di recente e che il rosso brillante scelto non disturbava affatto il verde dei marmi alle pareti.
La cassetta della posta era piena di pubblicità, che prelevò con insofferenza, visto che anche a casa sua non passava giorno che non arrivasse qualche avviso di offerte sconto.
Decise di fare a piedi i due piani di scale che l’avrebbero portata al “suo” appartamento, come aveva precisato il notaio, all’atto della successione. (“Lei è figlia unica e quindi unica erede, non deve dividere niente con nessuno. Mi creda, è una fortuna, alle volte, ho visto liti e cause infinite tra eredi anche per patrimoni di scarsa consistenza”).
Arrivata davanti alla porta, ebbe un attimo di esitazione; dall’altra parte non l’aspettava più nessuno. Non avrebbe sentito il ciabattare di sua madre, né la radio o la TV che suo padre teneva ad alto volume, vista l’inevitabile sordità dovuta alla vecchiaia ed il rifiuto ad usare l’apparecchio acustico. Due giri di chiave per la serratura di sopra e tre per quella di sotto e la porta si aprì con un po’ di difficoltà “Devo ricordarmi di oliare i cardini” si disse Giovanna.
L’appartamento l’accolse con un caldo soffocante (quel mese di luglio era particolarmente torrido e afoso) e lei si affrettò subito a spalancare le porte finestre per far entrare l’aria. Nella camera dei suoi genitori i vestiti di sua madre erano ancora sulla spalliera della sedia, come se fosse appena rientrata da una passeggiata. Spalancò l’armadio: i vestiti di suo padre erano ancora lì, appesi, dopo 10 anni. “Una bella cernita e poi destinazione Caritas” pensò Giovanna. Ma il solo pensiero di fare quest’operazione le mise addosso una tale malinconia che decise di passare in soggiorno, la stanza più luminosa di tutta la casa. Alle pareti quadri ben noti: un sentiero in un parco, con cespugli di rose, a fianco delle peonie in piena fioritura (gli autori erano vecchi amici di suo padre; ricordava ancora i pomeriggi passati assieme a lui nell’atelier dei due pittori), sulla parete di fronte una donna mollemente distesa su un letto, su un fianco, intenta alla lettura (quadro di fine ottocento eredità della nonna paterna), alcune stampe e… mancava qualcosa.
Dov’era il quadro che lei tanto amava? Non si stancava mai di guardarlo, perché sua madre l’aveva tolto e dove lo aveva appeso? Spalancò la porta dello studio e lo vide: stava sulla parete attrezzata a libreria, accanto a una foto che la ritraeva adolescente, sul lago di Como, dov’era andata in gita con suo padre, negli anni cinquanta.
Giovanna fissò il quadro per imprimersi bene in testa tutti i particolari, come se non lo conoscesse a memoria. Ogni volta che lo guardava scopriva nuovi dettagli; dipendeva dalla luce che vi batteva sopra e dall’angolatura dalla quale lo si guardava. Il pittore aveva fatto davvero un bel lavoro.    
                                      <<<>>>
Giuliano saliva con passo veloce la stretta via che conduceva al colle.
Conosceva a memoria ogni pietra del selciato e le vecchie case che si affacciavano sulla via, ci era nato, in una di quelle. 
La strada era appena dietro alle rive, un leggero vento di bora portava odore di mare e il grido dei gabbiani  giungeva forte e intenso fino a lì.
La luce del tramonto riusciva ad infilarsi a fatica in quel dedalo di viuzze, illuminando per un breve lasso di tempo le finestre senza imposte delle case addossate l’una all’altra, quasi si tenessero su a vicenda. S’infilò in un portone buio, salì una breve rampa di scale e bussò a una porta che normalmente era sempre aperta. “Avanti”, gridò Gina “sono in camera”.
L’appartamento constava di un’ampia cucina, piuttosto buia, visto che dava sul cortile interno, ma la camera godeva di due ampie finestre che davano sulla via e dalle quali, sporgendosi, si poteva vedere il mare. La camera di Gina fungeva da camera da letto e da atelier. Gina faceva la sarta, ma anche la pittrice, a tempo perso ed era davvero brava.
Prima della guerra (la prima) aveva studiato alla Scuola di Belle Arti, la famiglia se lo poteva permettere, ma poi, alla fine del conflitto, il mondo in cui era vissuta e le certezze di cui si era nutrita erano crollate ed era stato giocoforza adattarsi.
Di pittura non si campava, per cui il suo sostentamento proveniva dal lavoro di sarta.
Il marito “navigava”, come si dice: per un breve periodo Giuliano e suo marito avevano navigato assieme, poi si erano imbarcati con due differenti compagnie di navigazione che facevano rotte diverse, ma l’amicizia non era mai venuta meno. Giuliano ed il marito di Gina, Vittorio, si erano conosciuti in guerra, 97° reggimento di fanteria dell’esercito austro-ungarico, prima in Boemia, poi in Galizia e infine sul fronte rumeno. Al ritorno a casa, spaesati, senza alcun punto di riferimento, avevano fatto tesoro degli studi nautici e deciso di girare un po’ il mondo, navigando.
Vittorio non faceva scali frequenti nella sua città e comunque sempre per brevi periodi.
Spesso Giuliano si chiedeva perché Gina non andasse ad abitare in un’altra zona, dove c’erano appartamenti più nuovi, dotati di ogni comodità e dove avrebbe potuto avere una stanza da adibire ad atelier di pittura, ma Gina rispondeva che voleva stare lì, perché suo marito, quando ritornava a casa, ci impiegava meno di cinque minuti dal molo di attracco al portone di casa e lei poteva già vedere la sagoma della nave quando entrava in rada.
Giuliano era un vagabondo; dopo che era “sbarcato” ora faceva il meccanico in un’officina (aveva una passione per le automobili), ma già scalpitava per trovare un altro lavoro.
Abitava con la madre, vedova, e tre sorelle, nella via accanto a quella di Gina, ma il più delle volte si faceva ospitare da amici, che non chiedevano di meglio, visto che teneva allegra la compagnia e sapeva accompagnarsi alla chitarra, senza peraltro disdegnare il pianoforte.
Si dilettava anche di pittura, senza  aver però mai approfondito. Ogni tanto passava a salutare Gina, le chiedeva del marito, beveva un caffè e se andava verso altre mete, che includevano le numerose osterie dislocate nel rione, dove si poteva giocare a carte e stare in compagnia.
Gina stava finendo di orlare un abito, era in ritardo nella consegna e doveva affrettarsi. Giuliano le si sedette di fronte, parlarono del più e del meno, di conoscenti comuni, mentre le dita di Gina facevano scorrere velocemente l’ago nel sottopunto.
Lei alzò un attimo gli occhi, ruppe il filo (l’orlo era terminato) e improvvisamente gli disse:”Voglio farti un ritratto.” “Perché?” chiese Giuliano. “Perché mi va” rispose lei “e poi te lo regalo”.
Era da un po’ che ci pensava: Giuliano aveva folti capelli neri, ondulati, occhi di un grigio scuro (retaggio della nonna spagnola), mani affusolate, sempre ben curate, aveva un’eleganza innata nel vestire. Il fatto che una delle sorelle facesse la camiciaia e un’altra la pantalonaia lo aiutava molto nel guardaroba. “Vieni domani pomeriggio dopo le sei” disse Gina “per quell’ora avrò finito il mio lavoro di sarta e potrò dedicarmi a te”.
A Giuliano parve una cosa strana presentarsi all’ora del tramonto; aveva sempre pensato che i pittori preferissero dipingere in ambienti ben illuminati, ma, a onor del vero, a vedere certi quadri con atmosfere cupe c’era da ricredersi.
Decise che l’artista era lei e sua la decisione dell’ambiente di contorno.
Arrivò puntuale e attese che lei finisse di applicare un colletto di pizzo, dopo di che spuntarono fuori cavalletto, pennelli e colori.
La stanza era già lievemente in penombra, tra poco sarebbe stato necessario accendere un lume. Gina andò un attimo in cucina e ritornò con delle candele, che sistemò sapientemente, ordinando a Giuliano di mettersi in una posizione tale che il viso, leggermente inclinato, fosse appena sfiorato dalla tenue luce emanata e iniziò a dipingere.
Il lavoro richiese parecchie sedute e i mozziconi di candela stavano lì a dimostrare l’impegno dell’artista. Il volto dell’uomo fissato sulla tela aveva un che di malinconico e di pensoso, che stupì perfino Giuliano. La pittrice aveva colto un sentimento dell’animo che lui cercava di camuffare sotto atteggiamenti spavaldi e burleschi, ma che, evidentemente, l’artista aveva saputo cogliere al di là della facciata, aiutata, forse, in questo, anche dal suo essere donna.
Quando la tela fu terminata, Gina vi appose sul retro la propria firma e la data: 1930.
Il quadro subì, negli anni a venire, numerosi traslochi al seguito del vagabondare del suo proprietario, finché non approdò alla sua sede definitiva.
L’amicizia con Gina ed il marito si interruppe bruscamente quindici anni dopo l’esecuzione del quadro, quando entrambi finirono inghiottiti nei campi di sterminio.  
                                                                             <<<>>> 
Giovanna si riscosse: quel quadro, che suo padre amava tanto, l’avrebbe portato con sé, nella casa in cui viveva con suo marito, mentre avrebbe lasciato gli altri dov’erano, in modo che quando sarebbe ritornata a casa (sì, perché quella era comunque la sua casa) trovasse intatta l’atmosfera di un tempo, con tutte le cose al loro posto, com’erano sempre state, anche se non si poteva riavvolgere all’indietro il nastro della vita per salvare solo le cose belle e cancellare quelle brutte. Guardò ancora una volta il quadro, prima di avvolgerlo delicatamente in carta da giornale: chissà a cosa pensava suo padre mentre veniva ritratto; ormai era troppo tardi per chiederglielo.
Era troppo tardi per tutto; si pensa sempre di avere tanto tempo a disposizione e si rimandano chiarimenti e spiegazioni a dopo, mentre invece la vita scorre veloce e c’è sempre qualcosa di apparentemente più importante da fare, che ti impedisce di dedicarti di più a quelli che ti circondano.
La cornice aveva bisogno di essere rimessa a nuovo, l’avrebbe portata da un suo amico corniciaio che aveva bottega in centro, nella cittadina in cui ora abitava, vicino al fiume.

Finito il restauro, il corniciaio le chiese di poterlo tenere esposto per un po’, visto  che tutti quelli che entravano nel suo negozio finivano per essere catturati da quel ritratto e qualcuno aveva addirittura chiesto di acquistarlo.
E così, per un paio di settimane, il quadro fece bella mostra di sé in vetrina e Giovanna vide che parecchie persone  vi si soffermavano, commentando i particolari e chiedendosi chi mai fosse l’uomo che vi era ritratto.
Dopo averlo portato a casa, si pose il problema di dove metterlo.
Le pareti erano già ampiamente occupate: Giovanna voleva sistemarlo in un posto da dove fosse possibile vederlo da ogni parte della stanza.
E lo trovò, in un angolo tra una finestra e la parete, anche se l’illuminazione non era ideale.
Ma non si trattava, dopotutto, di un ritratto a lume di candela?
                                                                                                                           Lucia Accerboni

giovedì 9 febbraio 2012

Educazione Musicale

La dottoressa Paola Zanusso 
foto di Adriano Toffolon

Secondo dei tre incontri previsti con la dottoressa Paola Zanusso , diplomata in canto lirico, che continua a guidarci nel mondo delle grandi Opere musicali del '700.
Dopo averci parlato di Lorenzo Da Ponte, nato a Ceneda (Vittorio Veneto), librettista italiano de Le nozze di Figaro e poi del Don Giovanni e di Così fan tutte di Mozart, oggi abbiamo potuto ascoltare e vedere brani tratti da Le nozze di Figaro.
Grazie a Paola Zanusso per averci catturato fin dalla prima volta con le sue appassionate e coinvolgenti descrizioni.
Chi ben comincia è già a metà ...dell'Opera.


                   

mercoledì 1 febbraio 2012

Visita dell’UTE: Arte Moderna e Contemporanea a Pordenone

Dopo la visita, abbiamo raccolto due simpatici resoconti, quello del nostro amico Giorgio Gislon e l'altro della nostra impareggiabile presidente dell'UTE prof.ssa  Marta Roghi. 
Questa la prima opinione: 
     
Ieri ho visto per la prima volta il parco Galvani.
E' un piccolo polmone verde dentro Pordenone, con il bel laghetto al confine e le inevitabili anatrelle che lo frequentano.
In fondo, defilata, la costruzione che ospita il museo delle arti contemporanee.
Oltre alle molte opere di vari artisti, notevoli sono le due mostre inedite: una riunisce circa cento opere, tra acquarelli, dipinti, sculture, ceramiche e grafiche del poeta e scrittore Tonino Guerra, mentre un ulteriore allestimento è dedicato al lavoro artistico del noto attore Alessandro Bergonzoni.
Tirava un vento freddo che faceva rabbrividire, ma i locali della mostra erano accoglienti e ben riscaldati, disposti in vari piani come si conviene, ed un grande salone al piano sotterraneo.
I curatori della mostra, intelligentemente, hanno disposto le opere migliori nel primo percorso.
Il visitatore può così vedere subito un De Pisis, un De Chirico, un Guttuso.
Alessandro Bergonzoni
Molti sono gli autori esposti, che riflettono le mille sfaccettature dell'arte del novecento.
Quando, all'uscita, uno si chiede, per forza di cose, se valeva la pena, io rispondo di sì.
E' stato entusiasmante.
Tonino Guerra
Tutte le definizioni vi possono trovar posto: incantevole, orripilante, mostruoso, delicato, misterioso,trascendente, insignificante, bugiardo, ridicolo, ma tutti si possono considerare interessanti dal punto di vista di una ricerca personale che solo un artista riesce ad esprimere.
Abbiamo avuto la fortuna, noi dell'UTE, di avere una guida accompagnatrice, la nostra Marianita, che è riuscita a tener desta l'attenzione di tutti, per tutto il percorso.
Ringrazio quindi chi ha avuto la splendida idea di organizzare questa visita.
Sarebbe stato bello, visto che altri visitatori in quel momento non c'erano, poter fermarci per un momento e discutere fra noi le opere esposte, considerato che le impressioni del discente non sono sempre quelle del docente.
Ma è stata una bella esperienza.                                      Giorgio Gislon


Questa l'opinione della prof.ssa Marta Roghi:

Indifferenti alle furiose intemperanze del tempo, un piccolo gruppo di eroi si è recato a Pordenone, in treno, a visitare una bella ed interessante mostra che esponeva numerosi disegni, poesie e altre forme d'arte del multiforme e simpatico artista di Sant'Ancargelo di Romagna: Antonio (detto Tonino) Guerra. Il cuore batte nel discorrere di terra romagnola in quanto io, giovanissima studentessa all'Università di Bologna, abituata a frequentare le sue famose spiagge, Tonino Guerra l'ho conosciuto, anche se lui era molto più anziano e famoso. Fellini no, non ho avuto questo piacere e questo onore. Perchè Federico e Tonino erano amicissimi.
Tonino e Fellini
Accompagnati da una guida preziosa, la nostra collaboratrice Ute, dottoressa Marianita Santarossa, abbiamo poi visitato le sale in cui venivano esposte le opere o meglio, le installazioni di un artista anomalo e trasgressivo: Alessandro Bergonzoni, di cui non apprezzo comunque il linguaggio volutamente involuto e poco comprensibile. Bizzarrie di un artista che vuole essere ermetico, dimenticando che comunque sia, lui non è né Montale, né Ungaretti.
Belle le sale di Villa Galvani in Viale Dante a Pordenone, consiglio di visitarle perchè le opere esposte sono di grande valenza artistica e storica.
                                                                                                        Marta Roghi

 Per maggiori dettagli sulla mostra, potete visitare un sito web cliccando QUI


  
              
          






            Foto di Adriano Toffolon