giovedì 7 gennaio 2021

L'ERA DEL TEMPO PERDUTO

 di Elide Da Ros
gruppo di Scrittura Creativa - UTE Sacile
 
Mi è stato chiesto che cosa penso del periodo che stiamo vivendo, di quello che sta succedendo.
Credo di poter dire molto non tanto di ciò che penso ma di quanto è accaduto nella mia famiglia, a mio marito e a me.
A dire la verità, all'inizio non ponevo molta attenzione alle notizie infauste che provenivano dalla Cina e poi anche da altri Paesi.
Pensavo si trattasse di una delle tante influenze stagionali che puntualmente ad ogni stagione fredda colpiscono l'umanità.
Ritenevo inoltre che il malessere venisse rimarcato, al fine di creare nuovi vaccini su cui speculare, come accade spesso.
E poi avevo ben altro a cui pensare.
Nel giro di un anno mio marito ed io siamo stati colpiti da cancro e abbiamo dovuto affrontare entrambi un intervento chirurgico non proprio banale.
A me è andata, per il momento, tutto sommato bene, perché non ho avuto ripercussioni; mio marito invece, da gennaio, aveva dovuto sottoporsi ad un ciclo di radioterapia. Cercavo anche di fare dell'ironia, mentre si stavano diffondendo dati di giorno in giorno più preoccupanti sul nuovo morbo che era sulla bocca di tutti.
E dicevo: se il virus passa da casa nostra, si porta via due malati oncologici e la nostra scomparsa farà almeno felice lo Stato, che si libererà di due pensionati scomodi e anche piuttosto dispendiosi per il settore della Sanità.
Sono stata presa sulla parola.
Mio marito, all'inizio di marzo, aveva cominciato ad avvertire una debolezza insolita.
I medici ci rassicuravano dicendo che si trattava di una condizione normale per chi stava affrontando la radioterapia.
Fino al 6 marzo, comunque, nel reparto dell'Ospedale Civile di Pordenone frequentato da mio marito, nessun operatore indossava la mascherina.
Il 9 mattina tutti ne erano provvisti e, appena lo videro arrivare, lo tennero a distanza e gli chiesero come si sentisse.
Egli disse la verità: si sentiva molto debole.
Gli venne replicato: “Torni a casa, si misuri la febbre e poi ci sentiremo.”
E da quel giorno è iniziato il nostro “calvario”.
La febbre c'era, anche se non molto alta.
Consultammo telefonicamente il nostro medico curante, che s'informò se si fossero manifestati anche disturbi respiratori e problemi di tosse secca e raffreddore.
C'erano solo la febbre, debolezza ed inappetenza.
Io ero abbastanza preoccupata perché mio marito, oltre ad essere un paziente oncologico, è diabetico, cardiopatico ed ischemico; il medico, però, insisteva sul fatto che, secondo i protocolli cui doveva riferirsi, se non si fossero manifestati determinati sintomi, non ci sarebbero stati tamponi né ricoveri ospedalieri.
Bisognava portare pazienza e attendere ulteriori sviluppi.
Venerdì 13 la situazione si era aggravata; il medico ci disse di attendere fino a lunedì e poi si sarebbe deciso il da farsi.
Domenica 15, al pomeriggio, provai a chiamare il 115, perché mio marito si sentiva malissimo, la pressione aveva degli sbalzi paurosi e temevo che gli venisse un collasso. Mi venne risposto che non c’erano mezzi disponibili, che la situazione era grave.
Mio figlio, allora, mettendo a repentaglio la propria incolumità, disse: “Prima che muoia a casa, mio padre, lo accompagno io in ospedale!”
Preparai in fretta una valigetta con il necessario al ricovero e li accompagnai verso l'uscita, non sapendo che cosa aspettarmi per l'immediato futuro, considerato che anch'io avevo cominciato ad avvertire diversi disturbi: una mancanza di energia vitale mai avvertita, nausea al solo vedere il cibo; ciò che mi preoccupò maggiormente fu però la perdita improvvisa dell'odorato e di parte del gusto.
Non avevo né febbre né disturbi respiratori.
Mio figlio ritornò dopo breve tempo riferendo che era stato costretto ad “abbandonare” il padre in Pronto Soccorso e a riportarsi a casa anche la valigetta, perché tutto ciò che proveniva dall'esterno poteva essere pericoloso per l'incolumità del personale.
Non sapevamo allora che il cellulare di mio marito era rimasto dentro la valigia e questo fatto si rivelò fonte di ansia e quasi di disperazione, per i 23 giorni successivi al ricovero. Da quel giorno le condizioni di Roberto si aggravarono.
Sopravvenne la temuta polmonite bilaterale interstiziale.
Non venne mai sottoposto a terapia intensiva perché - ci venne detto chiaramente - gli sarebbe stata letale, in considerazione delle sue molteplici patologie.
Fu sottoposto a ventilazione polmonare continua.
Gli furono somministrati antibiotici, antipiretici, antinfiammatori, antivirali.
L'ultima speranza era affidata al Cortisone.
Per tre settimane, durante i brevi colloqui telefonici che ci furono concessi giornalmente, ci dissero di non farci illusioni, che i polmoni erano distrutti, che non bisognava nutrire speranze inutili.
Ci consolasse il fatto che il paziente non soffriva, perché sedato.
Il giorno più nero fu quello in cui ci venne chiesto di non telefonare, perché il personale aveva tempi ridotti.
Saremmo stati avvisati se e quando...
Nostro figlio però non demordeva.
L'unica scintilla di speranza, in tanto dolore, mi fu istillata da quanto mi disse, durante una telefonata, il dott. Franco Galanti, marito di Maria Balliana: “Abbi fiducia, talvolta, da queste polmoniti interstiziali, alcuni si salvano; i tempi di recupero, però, sono molto lunghi.”
Fu lungimirante.
La nostra angoscia più profonda - del resto quasi universalmente condivisa - era però quella di non poter comunicare con lui, il pensare che si sentisse abbandonato, che potesse andarsene senza una presenza vicina.
Avevamo chiesto più volte, visto che il suo cellulare non si era trovato negli indumenti che aveva addosso al momento del ricovero, di portargliene uno, ma questo ci fu concesso solo dopo oltre tre settimane, quando potemmo consegnare al personale addetto anche la valigetta, disinfettata, bonificata e con indumenti e materiale da toilette nuovi e sigillati.

Da quel momento abbiamo cominciato a intravedere un raggio di sole, dopo tanta oscurità.
Un medico, dopo qualche giorno, ci disse: “Ormai abbiamo fatto tutto quello che è nelle nostre possibilità e lo abbiamo detto chiaramente al paziente, quando ci ha chiesto di dirgli la verità sulle sue condizioni e sulle sue possibilità di sopravvivenza. Ora solo da lui può venire qualcosa, solo lui può aiutarsi con la sua forza di volontà ed il suo attaccamento alla vita!”
E l'impulso a voler continuare a vivere gli venne quando seppe di avere ancora una famiglia.
Pensava infatti che io fossi morta, perché al momento della sua partenza da casa non stavo bene; non sapeva che cosa ne fosse stato del figlio che lo aveva accompagnato in ospedale.
Questo mi disse, piangendo a dirotto, quando finalmente potei parlargli al telefono.
Mi sembra ora impossibile che non gli sia mai stato riferito che lo mandavamo a salutare, che i suoi amici lo pensavano.
Probabilmente lo stato in cui veniva mantenuto, al fine di evitargli la sofferenza fisica, gli aveva alterato la capacità di percepire correttamente quanto gli veniva detto.
Io posso solo immaginare come ci si possa sentire inchiodati ad un letto, pieni di tubicini, attaccati a macchinari, in compagnia del sordo rumore dell'ossigeno, con il suo freddo “soffio” di vita, per oltre un mese e mezzo.
La svolta è avvenuta la sera del giorno di Pasqua.
Un giovane medico, con cui non avevamo mai avuto contatti, ci disse:
“Possiamo nutrire una speranza. Non siamo infatti in grado di affermare che i danni subiti dai polmoni siano irreversibili, perché non abbiamo l'esperienza sufficiente per farlo. Nessuno può in questi casi dire qualcosa di definitivo e che vada bene per tutti. Cercate voi famigliari di dargli tutto il supporto possibile, poiché il paziente ci sembra motivato”.
Da quel giorno mio marito cominciò a mangiare regolarmente, a chiedere che gli venisse portata della frutta, riprese a leggere e cominciò ad ascoltare la radio, che gli avevamo fatto pervenire assieme al cellulare.
Ebbe così modo di rendersi conto di quanto stava succedendo nel mondo e di riprendere un minimo di contatto con la realtà esterna alle quattro mura della stanza in cui era rinchiuso da troppo tempo.
Gli furono di molto conforto le telefonate degli amici, che lo intrattenevano a lungo.
Si meravigliò del fatto che “Bepo”, il suo collega di caccia per oltre 40 anni, non si fosse fatto sentire.
Nessuno aveva trovato il coraggio per dirgli che Bepo, fatalmente accompagnato all'ospedale dal figlio nella mattinata del 15 marzo, appena poche ore prima di lui, non ce l'aveva fatta.
Era sopravvissuto poco più di una settimana di terapia intensiva.
Maria Rosa, sua moglie, quando ebbi il coraggio per contattarla, mi disse: “Pregherò, perché almeno uno dei due si salvi”.
Devo fare qualche riferimento all'aspetto della dignità personale del malato di covid, sulla base di quanto mi ha riferito mio marito, di volta in volta.
Quando entrò in possesso della sua valigetta, poté finalmente togliersi i calzini che indossava da 23 giorni.
Poté indossare il suo pigiama e questo gli diede un immenso benessere, perché aveva sofferto il freddo, con indosso solo il camicione fornitigli dall'ospedale.
Mi confidò che quella notte finalmente dormì un po' rilassato.
La sera successiva però non voleva addormentarsi, per paura di non svegliarsi più. Quando poté guardarsi allo specchio, quasi non si riconobbe, con la faccia piena di peluria datata.
Fu finalmente sbarbato e riuscì in qualche modo a lavarsi.
Era un grosso problema recarsi in bagno, perché il dispensatore dell'ossigeno era collegato al letto per cui, per cambiare stanza, era costretto a cercare di respirare autonomamente.
Ogni sera gli veniva messo il pannolone, di cui regolarmente si disfaceva durante la notte.
E ogni mattina le infermiere si chiedevano come mai il letto fosse sempre asciutto.
Mi confessò che, contravvenendo a tutti i divieti che gli erano stati imposti, ogni notte, per qualche minuto staccava l'ossigeno e raggiungeva la stanza da bagno, camminando addossato alle pareti.
Aggrappandosi poi al letto, con immane sforzo, ne faceva il giro.
Questo, perché temeva di non riuscire più a camminare.
Una notte è anche caduto e non so come sia riuscito a risollevarsi.
Ne ho avuto conferma quando, al suo rientro a casa, scoprii un grosso ematoma sulla schiena.
Direi che, in tanta malora, ha avuto anche della fortuna, perché la sua audacia avrebbe potuto essergli fatale.
A dispetto di tutto, mi disse che non ebbe mai la sensazione di morire.
Solo in una determinata circostanza gli sorse un dubbio.
Mentre era in trasferta da un reparto all'altro - immagino l'ultimo fosse quello creato apposta per i pazienti covid -, fu “depositato” per un'intera notte in una specie di sgabuzzino, non proprio immacolato.
L'orinatoio non era stato svuotato e nella stanzetta l'aria era quasi irrespirabile.
Pensò: “Vuoi vedere che mi hanno portato qui a morire!”
Al mattino giunsero due infermiere, una delle quali molto giovane che, quando egli le salutò, esclamò: “Ma lei è ancora vivo!”
Fu rimproverata dalla collega ma ormai il messaggio era giunto a destinazione.
Roberto disse allora alla giovane: “La perdono in virtù della sua età ed inesperienza.” Da lì fu trasferito poi al Servizio Intermedio Polifunzionale di Sacile, per essere tenuto sotto osservazione e iniziare una se pur minima fase di recupero.
Fu dimesso il 2 maggio, dopo 52 giorni di “clausura”.
Al rientro a casa pesava 49 kg, non riusciva quasi a stare in piedi e aveva un preoccupante colorito grigiastro.
A me spettava ora il compito di riportarlo alla normalità!
Mi piace ricordare quanto mi riferì al rientro dall'Ospedale di Pordenone, dove si era recato nel reparto di Radioterapia, per accertarsi se dovesse riprendere la cura, sospesa dopo 25 sedute su 33.
Quando lo psicologo ed il medico, che lo avevano seguito nel suo percorso, lo videro, gli corsero incontro, lo abbracciarono, lo baciarono, gli strinsero la mano - di questi tempi! -.
Erano felici di rivederlo perché, per un certo periodo, era­no riusciti a seguirlo nelle sue peripezie, poi ne avevano perso le tracce e lo credevano morto.
In quell'occasione, poiché egli si dimostrò stupito dalla mancanza assoluta di precauzioni da parte loro, gli dissero:
“Zanette, adesso è lei che deve avere paura di noi, non viceversa!”
E come ho vissuto io quel terribile periodo?
Le mie condizioni di salute, per fortuna, migliorarono entro breve tempo e quando, il 19 di marzo, potei sottopormi al primo tampone, praticamente non avvertivo più alcun disturbo, fatta eccezione per qualche eruzione cutanea non particolarmente fastidiosa. Uscii però dallo stato di positività solo dopo circa 45 giorni e 7 tamponi.
Mi è doveroso riferire che il personale predisposto ai controlli quotidiani dei positivi agli “arresti domiciliari” è stato inappuntabile, almeno per quanto mi riguarda.
Si era instaurato una specie di rapporto di tipo quasi affettivo tra medico o assistente sanitario e paziente.
Sono arrivata persino a chiedere il nome e cognome di chi mi telefonava, per poter ringraziare della gentilezza usatami, della pazienza dimostrata da parte di sconosciuti verso persone senza volto.
Ricordo in particolare un giovane, Antonio Zorzetto, che riconoscevo immediatamente dal dolce timbro della voce.
E solo Dio può sapere di quanta dolcezza e quanto conforto avessi bisogno in quel periodo!
Penso di essere sopravvissuta , senza “dare di matto”, a quel periodo di clausura involontaria, lavorando, pregando e sperando, come ripeto a chiunque mi chiede come abbia potuto io, abituata a muovermi ogni giorno a piedi e in bicicletta, a rimanere relegata in casa.
Ogni volta che pensavo alle condizioni in cui versava Roberto, venivo presa da uno stato di angoscia, che riuscivo a dominare solo tenendomi costantemente impegnata e pensando a tutte le altre famiglie che si trovavano nella mia stessa situazione, se non peggiore.
Mio figlio ed io ripetevamo ogni sera, dopo la quotidiana telefonata: “E' ancora vivo, possiamo ancora sperare, anche contro ogni pensiero razionale!”
Ho messo a soqquadro ogni stanza della mia abitazione.
Sono riuscita dopo anni a salire su una scala, per spolverare le parti alte degli armadi. Ho buttato via tanta roba che non utilizzavo da anni, imballaggi di televisori, di stampanti.
Ho ripassato tutte le mie riviste a carattere culturale, per capire da quali sarei riuscita a staccarmi, ho regalato libri.
Ho persino fatto del giardinaggio, complice il tempo splendido, che sembrava farsi beffa del lockdown.
Ho pulito porte, finestre, infissi, vetri, come non avevo mai fatto.
Le mie forze sembravano aver preso vigore da quella situazione così paradossale e fuori da ogni normalità.
Mi è stato chiesto se non mi sentissi sola.
Non ne ho proprio avuto il tempo.
Quando ero in casa, il telefono squillava quasi ininterrottamente.
Penso di non esagerare dicendo di essere stata affettuosamente contattata almeno 30 volte in una giornata.
Sono stata chiamata dalle Canarie, da Roma.
Non mi è mai venuto meno il sostegno di parenti, amici e conoscenti, colleghi dell'UTE, ex colleghi di lavoro.
Tanta gente ci è stata vicina nella preghiera.
Un pastore protestante, vicino di casa, disse di aver pregato per mio marito in sette chiese.
Mio figlio e mia sorella Michela mi portavano la spesa.
La mia amica Maria mi recapitava il pane.
Qualcuno mi regalò dell'insalata.
Alcuni amici di Roberto mi donarono degli asparagi, raccomandandomi di lasciarne qualcuno anche per lui (mi tremavano le gambe nel sentirli, considerata la gravità della situazione).
Diego, il giornalaio, ha sempre esaudito le mie richieste.
I vicini di casa, quando mi vedevano intenta a strappare erbacce in giardino,si fermavano a fare una chiacchierata.
Come avrei potuto soffrire di solitudine?
In quel periodo mi sono sentita veramente parte di un coro, in cui l'unica voce stonata ero io.
Infatti gli unici colpiti dal virus, in un isolato che comprende circa 100 famiglie, siamo stati mio marito ed io.
E' stata una grande consolazione il fatto di non essere stati degli “untori”.
La mia giornata tipo era più o meno questa: la mattina mi alzavo prima delle 7.00 e accendevo il fuoco nella cucina economica, fuoco che mi dava un senso di calore anche spirituale.
Ascoltavo alla TV la Santa Messa, celebrata da Papa Francesco.
Nutrivo il mio micio, che mi è sempre stato vicino, di giorno e spesso anche di notte. Procedevo poi con la doccia calda, la doccia fredda e la relativa reazione.
Fatta un'abbondante colazio­ne, iniziato la mia giornata di lavori straordinari.
A pranzo e a cena non mi sono mai alimentata con un panino.
Anzi, mi trattavo piuttosto bene, non anche se ma proprio perché ero da sola.
Non mi sono mai fatta mancare le verdure crude e cotte.
A proposito di quest'ultime, posso dire di aver agito in piena autarchia.
Nel mio giardino tutti i tipi di erba sono i benvenuti.
Mi sono quindi servita abbondantemente di tarassaco, borraggine, cespica, piantaggine, che ho spadellato e mangiato come contorno o utilizzato nelle frittate.
Purtroppo ho dormito poco ma i tempi di veglia sono stati colmati da continue preghiere e tante letture.
In quel periodo ho persino imparato a memoria il “Si quaeris miracula”, quella preghiera recitata dai devoti di Sant'Antonio da Padova, per chiedere miracoli o per ritrovare oggetti smarriti.
Non mi sono mai sentita degna di essere esau­dita.
Anche se non sono mai caduta nella disperazione, non avrei mai immaginato che la mia famiglia potesse essere destinataria di un “miracolo”, ma qualcosa di straordinario è senz'altro accaduto.
E il fatto ancora più incredibile è quello che il beneficiario della Grazia è un ateo dichiarato e impenitente.
Le vie del Signore sono veramente infinite!
La sera del Venerdì Santo, la mia angoscia aveva raggiunto il suo culmine.
Decisi di seguire la Via Crucis di Papa Francesco alla TV, mentre pedalavo sulla cyclette.
Assorbii tutto il dolore delle realtà presentate dagli “attori” di quel rito, insolito a dire la verità, ma toccante e adatto alle circostanze che in quel momento stava vivendo tutto il mondo.
 Quando vidi Papa Francesco, curvo - che sembrava essersi caricato sulle spalle il dolore universale -, appoggiare la testa alla croce, mi venne spontanea questa riflessione: “Io sono una povera disgraziata, nulla posso contro quello che è destinato per Roberto, lo affido allo Spirito e accetto tutto quello che avverrà. Chiedo solo forza e consolazione”.
Da quel momento, mi sentii in pace e dormii per l'intera notte.
Una parte del mio tempo era anche dedicata all'attività fisica.
Il cielo si era sempre mantenuto sereno e mi mancavano da morire le mie corse in bicicletta.
Mi sono quindi rassegnata a pedalare sulla cyclette, che non utilizzavo da anni.
Abituata poi a cammina­re per almeno un'ora tutti i giorni, con qualsiasi tempo, mi sono imposta di fare almeno 10.000 passi nell'arco della giornata.
Mi sono dovuta rassegnare a fare avanti e indietro per i vialetti del giardino e a passare tante volte da una stanza all'altra, ma ce l'ho sempre fatta.
Ho osservato scrupolosamente la quarantena.
Sono uscita di casa solo per sottopormi ai tamponi.
Per la seconda ricerca, per non mettere a repentaglio la salute di mio figlio, che avrebbe voluto accompagnarmi con l'auto, mi sono recata a piedi all'Ospedale Civile di Sacile.
In tutto sono poco meno di due km, ma quel giorno mi sembrarono 20.
Non essendo più abituata a camminare sulle lunghe distanze, sbandavo in continuazione e, appena giunta a destinazione, accettai volentieri la sedia che mi veniva offerta.
Mi ac­corsi in quel momento che tutti gli altri convenuti erano a bordo delle loro auto, proprio come in una sorta di “drive-in”, che avevo visto in TV.
Per i successivi tamponi fui invitata a presentarmi presso la sede della Fiera di Porde­none e devo confessare che mi sembrava un'impresa mettermi alla guida, dopo quel periodo di clausura.
Per fortuna, non incontrai alcun veicolo, nemmeno in autostrada.
Mi sembrava strano poter rivedere da lontano i monti e veder scorrere gli alberi, ormai pieni di fronde.
Mi pareva quasi di essere in vacanza.
Provai qualche attimo di gioia.
Adesso, che il peggio è alle spalle, posso confessare che per una volta mi sono compor­tata da trasgressiva.
La sera, quando uscivo in giardino per ultimare il mio percorso quotidiano di 10.000 passi, vedevo al di là del cancello, sulla strada, qualche mio vicino di casa che, con andare furtivo, volto quasi del tutto coperto dalla mascherina, andava a sgranchirsi le gambe in clandestinità.
Tutti ne avevano abbastanza delle limitazioni alla libertà di movimento, dei famosi 200 metri attorno a casa.
Io, che non sono per natura invidiosa, in quel momento avrei voluto essere al posto di quei “coraggiosi”.

La notte prima di essere dichiarata “negativa”, alle ore 1.30, uscii dal cancello di casa, mi guardai attorno, vidi che non c'era anima viva in giro e decisi di fare qualche passo sul marcia­piede, per vedere se sbandavo ancora.
Mi arrischiai ad arrivare fino alla prima curva e, in fondo alla strada, vidi i fari di un'auto.
Colta dalla paura di essere scoperta ­-­ pensavo fossero i carabinieri in perlustrazione -, infilai di corsa il primo vialetto tra le case a schiera del mio villaggio.
Improvvisamente, alcuni cani cominciarono ad abbaiare e mi sentii perduta.
Sembrava quasi la scena di un film.
Guadagnai velocemente il cancello di casa, non c'erano auto in strada e mi sentii salva.
Il giorno successivo mi fu comunicato il cessato periodo di positività e finalmente, potei uscire.
Mai come in quel momento capii la verità di Colui che scrisse che “La felicità è la fine di un dolore”.
E un'altra frase celebre mi venne in mente, riferendosi al vivere certe sensazioni, che “Intender non le può chi non le prova”.
Su quel periodo infausto posso fare alcune considerazioni, che potranno sembrare quasi blasfeme.
Nonostante tutta l'angoscia vissuta, la clausura sopportata, i malesseri, ho avuto la sensazione, dopo 43 anni di convivenza con mio marito, di godere di una indipendenza insolita, direi quasi assoluta.
E cerco di spiegarmi.
Mi sembrava di avere ora a disposizione il tempo per pensare a mettere un po' di ordine in casa.
Il disordine “fisico” è una componente del mio carattere, penso in parte dovuta ai miei troppi interessi. Inoltre sono un'accumulatrice seriale.
Come ho ribadito spesso, non riesco a buttar via nemmeno i ricordi.
Finalmente avrei potuto cambiare qualcosa, per poter rendere meno infelice il mio consorte.
La beffa era però all'angolo: c'era la possibilità, quasi certa, che non sarebbe riuscito a vedere i risultati del mio operato.
Rimasta sola in casa, mi sono resa conto che nessuno si aspettava più qualcosa da me, dovevo occuparmi solo di me stessa.
Potevo mangiare quello che volevo e quando volevo, fare solo quello che mi sarebbe sembrato più opportuno.
Non avevo più orari da rispettare e non era cosa da poco!
Mi è accaduto anche un fatto strano: sono dimagrita di 5 kg in 5 settimane, io che di chili ne ho sempre avuti in esubero.
Chi mi conosce bene pensava che lo stare “ferma” mi avrebbe fatta ingrassare e portata alla depressione, ma è stato smentito.
Inoltre, io, abituata a non chiedere qualcosa, se non in caso di necessità, mi sono trovata a dipendere da altri.
E questo mi ha portato a riflettere molto su me stessa e sulla mia iperattività.
Ho imparato ad apprezzare maggiormente la libertà e la salute, che tutti diamo quasi sempre per scontate.
Anche dalle situazioni più brutte si può ricavare del buono.
Di quel periodo ho goduto il silenzio cui da tempo non ero abituata, forse dall'infanzia; il vedere che gatti e uccellini erano diventati padroni delle strade.
I merli mi venivano a cercare in giardino.
Erano ricomparsi i passeri, che da tempo non si vedevano.
E poi un fatto insolito.
Il mio gatto talvolta passava la notte fuori casa e, in quelle occasioni, ero solita lasciare delle ciotole in giardino con degli avanzi di cibo o dei croccantini.
Una sera, aprendo la porta sul retro dell'abitazione, chinato su una ciotola con degli spaghetti, vidi uno strano animale.
Al momento mi sembrò una “pantegana”.
La bestiola, quando mi vide, fuggì ed andò a nascondersi in un angolo, nei pressi della legnaia, appallottollandosi.
Capii così che si trattava di un riccio.
La sera successiva, alla “mensa”, si presentarono in due e così nelle notti successive.
Quando mi vedevano non si allontanavano più.
Avevano capito che ero un “fuoco amico”.
Dopo diversi giorni, ebbi anche la gradita sorpresa di notare che avevano fatto la tana in un angolo del giardino, sotto un mucchio di erbacce, che non avevo potuto smaltire.
Tutto ciò mi aprì l'animo alla gioia e mi fece sentire più che mai in pace con l'universo.
Qualcuno mi ha chiesto, dato il tempo vuoto da colmare, se avessi ripreso a ricamare, a dipingere o a scrivere.
Nulla di tutto questo è avvenuto.
Per coltivare le proprie passioni, bisogna avere l'animo libero dal dolore, che arriva ad offuscare tanti buoni propositi.
E a chi continua a voler negare la gravità della situazione che l'umanità sta vivendo, gli direi di passare da casa mia, per ascoltare un po' di vita vissuta.
Al di là della disperazio­ne di coloro che sono stati colpiti nel modo più atroce, bisogna pensare anche al recupe­ro di coloro che hanno avuto la fortuna di tornare a casa.
C’è chi ha perso l'uso degli arti inferiori e spesso anche superiori e non si sa se e quando potrà recuperare.
Qualcuno avverte dolori nelle articolazioni, nei muscoli.
E' difficoltoso “re-imparare” a respirare, a camminare.
Mio marito, rientrato a casa, trascorse diversi giorni tra il divano ed il letto.
Quando decise di recarsi all'aperto, fu costretto ad addossarsi alle siepi o alle recinzio­ni, anche solo per percorrere qualche decina di metri.
Più tardi studiò dei percorsi che fossero dotati di panchine.
Grossi problemi dovette affrontare per salire le scale.
Ci sono poi problemi di congiuntiviti, di eruzioni cutanee e poi tante altre conseguenze che nessuno è in grado di valutare, perché manca l'esperienza di una simile calamità.
E che dire dei problemi relativi alla perdita di memoria, di contatto con la realtà, di disorientamento?
Roberto, a cui piace molto preparare la tavola, mi ha confidato che per qualche tempo non si ricordava nemmeno più quale fosse il cassetto in cui sono contenute le tovaglie.
Non sono poi da sottovalutare i danni psicologici derivanti dalle limitazioni necessariamente imposte dalle autorità, per non parlare di quelli economici e sociali.
Come cresceranno i bambini di questo periodo?
Che ne sarà della scuola?
Come faremo ad abituarci a vivere - noi che credevamo di non conoscere limiti al nostro modo di agire - senza poter fare dei programmi, nutrire dei sogni, che vadano al di là della prossima settimana o del prossimo Decreto Legge?
Gli antichi non si arrischiavano a superare le Colonne d'Ercole; nell'anno mille si temeva la fine del mondo; quelli della mia generazione e parte di coloro che ci hanno preceduti sono stati cresciuti nella paura dell'Inferno.
Da decenni ormai non si teme più nulla.
Non ci si vuole rendere conto che sul pianeta siamo in troppi e insultiamo continuamente la natura che, a un certo punto, decide di difendersi.
Che il virus sia stato creato in laboratorio o si sia sviluppato spontaneamente non è rilevante.
Il dato di fatto è che è più forte di noi ed è un nemico invisibile e subdolo.
Sceglie su quale soggetto attecchire e quanto “albergare” in un orga­nismo.
Se si trova bene, si può fermare anche per mesi.
Gli scienziati con le loro ricerche e noi, con il nostro comportamento, possiamo e dobbiamo solo cercare di rendergli la vita impossibile.
Io non sono più giovane. Da diversi anni mi sento sfumare il tempo tra le dita e mi chiedo sempre se riuscirò a portare a termine alcuni progetti, che tengo in un cassetto.
Come tutti, mi trovo costretta a rimandare a giorni migliori.
E allora cosa posso pensare di questo tempo che stiamo vivendo?
Mi viene in mente solo una definizione: questa è l'era del tempo perduto.
 
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