Anche quest’anno
accademico UTE è giunto al termine; ringraziamo tutti coloro che hanno
partecipato alle attività: associati, docenti, ospiti e collaboratori; in
attesa di ritrovarci e con l’augurio di una buona estate, abbiamo il piacere di
salutarvi con una riflessione sul TEMPO, tema del programma
23/24 regalataci da Angelo Floramo, vincitore del Premio Nonino 2024.
IL TEMPO
C’è un
tempo per nascere e un tempo per morire.
Un tempo per ridere e un tempo per piangere.
Un
tempo per seminare e un tempo per raccogliere.
Così
canta la cetra del Quoelet, inseguendo le parole di una Sapienza antica.
E ci
sussurra che davanti alla maestosità dell’Eterno, immobile e immutabile, tutto
è vanità.
Anzi,
vanità delle vanità.
Una
consapevolezza che innerva tutta la ricerca della verità nel mondo antico,
permeando di sé l’età medievale.
E pare
quasi che Dante stesso la rincorra, irridendo la fragilità della bellezza,
perfino di Oderisi da Gubbio, di Cimabue e di Giotto:
Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien
quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il `pappo’ e ‘l
`dindi’,
pria che passin mill’anni? ch’è più
corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di
ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è
torto.
Eppure, come sussurrava
Achille all’orecchio della schiava Briseide, quanto è prezioso questo fuggevole
istante per la cui fugacità persino gli dei immortali invidiano l’Uomo!
Nel tempo che ci viene
concesso altro non possiamo fare che raccogliere le schegge di un’emozione,
tanto ci è dato, lasciare che ogni nostra fibra se ne lasci attraversare
mutandole poi entro le chiavi e le architetture della nostra memoria.
Ogni istante si fa così prezioso
perché potrebbe essere l’ultimo, l’inattingibile anelito verso l’Eternità.
E il saggio sa goderne
perfino le stille.
Noi, noi tutti siamo in
definitiva soltanto dei distillatori del tempo, ce ne inebriamo aggiungendo
vita agli anni, non anni alla vita, quando ci riesce.
Quando non siamo presi dalla
matematicità del secondo, dal granulo della clessidra, dagli ingranaggi di quel
“mobile ordigno di dentate rote” che come modulava il nostro Ciro di Pers
“macina il tempo e lo riduce in ore, ed ha scritto di fuor con fosche note a
chi legger le sa: sempre si more”.
E allora tu, ovunque tu sia
ancora, sempre bella Leuconoe dai lunghi capelli neri, sciogli proprio ora le
tue trecce sulle tue spalle tornite, sii saggia, come già mille anni fa ti
suggeriva di esserlo il poeta, e getta generosa e benevola la legna sul fuoco,
mesci vino odoroso dall’anfora sabina per me e per te, amami tutta la notte
fino a quando bizzosi a oriente proromperanno i destrieri di Febo.
Dal momento che non è dato
sapere quanti inverni ancora gli dei ci daranno in sorte.
Non contarli, non affannarti
nell’interrogare la sorte.
Ama, altro non chiederti.
Altro non chiedermi.
Solo così inganneremo l’invida
aetas, il tempo che scorre rapace e invidioso, e lo faremo tra i baci che ci
scambieremo a mille e a mille, tanto che nessun invidioso potrà né saprà
contarli, gettando su di noi i suoi occhi malevoli.
Il tempo è dunque l’attimo
che separa ciò che c’è stato e non può più tornare da ciò che ancora non c’è.
Il ponte sottile come una lama in cui il futuro diventa passato.
É l’esametron. Il primo
metronomo in assoluto, quello che ogni bambino ascolta nel grembo di suo madre:
tà-tata tà-tata tà: la musica della vita che batte il tempo fra sistole e
diastole fin dentro le viscere del mondo.
Angelo Floramo (Premio Nonino
2024)