... Ogni famiglia portava vino e dolci, soprattutto “pinza” (a base di farina di frumento, farina di mais, uova, zucchero, fichi secchi, uva passa, ogni famiglia aveva la propria ricetta), rigorosamente fatti in casa.
Compariva anche un pentolone di alluminio o più spesso un paiolo di rame, sotto il quale si accendeva il fuoco per preparare il brulé (vino con aggiunta di pezzi di mele, zucchero, cannella, chiodi di garofano).
Tutti gli abitanti del paese, lasciato il tepore delle stalle o delle abitazioni, si raccoglievano intorno al falò e ne attendevano l’accensione, che di solito avveniva tra le 19 e le 20, dopo che il parroco aveva proceduto alla benedizione.
Talvolta l’operazione risultava difficoltosa perché i materiali erano umidi e ovviamente di scarsa qualità, perché nessuno si sarebbe sognato di sprecare qualcosa di utile, e allora si veniva avvolti dal fumo e si cominciava a tossire.
Quando invece tutto procedeva bene, l’accensione era stata facile, la vecchia bruciava velocemente e se le faville si dirigevano verso sera, cioè verso occidente, cominciavano i canti.
Dalla direzione presa dalle faville, infatti, venivano fatti i pronostici per il nuovo anno, cioè, in sostanza per i raccolti: “Fulische verso sera, polenta a piena caliera, fulische verso matina, ciapa al sac e va a farina”.
Dalle nostre parti la credenza era questa, ma so che in altri luoghi era l’esatto contrario.
Tutti gli abitanti del paese, lasciato il tepore delle stalle o delle abitazioni, si raccoglievano intorno al falò e ne attendevano l’accensione, che di solito avveniva tra le 19 e le 20, dopo che il parroco aveva proceduto alla benedizione.
Talvolta l’operazione risultava difficoltosa perché i materiali erano umidi e ovviamente di scarsa qualità, perché nessuno si sarebbe sognato di sprecare qualcosa di utile, e allora si veniva avvolti dal fumo e si cominciava a tossire.
Quando invece tutto procedeva bene, l’accensione era stata facile, la vecchia bruciava velocemente e se le faville si dirigevano verso sera, cioè verso occidente, cominciavano i canti.
Dalla direzione presa dalle faville, infatti, venivano fatti i pronostici per il nuovo anno, cioè, in sostanza per i raccolti: “Fulische verso sera, polenta a piena caliera, fulische verso matina, ciapa al sac e va a farina”.
Dalle nostre parti la credenza era questa, ma so che in altri luoghi era l’esatto contrario.
Mi sono rimasti impressi, e li rammento ancora, i canti di quelle serate. Si cominciava con “Tu scendi dalle stelle”; si intonavano poi le Litanie dei Santi, a più voci, rigorosamente in latino.
Quasi nessuno capiva qualcosa del contenuto (ricordo che iniziavano con “Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Dei genitrix, ora pro nobis…” e terminavano con “Regina Sanctorum Omnium, ora pro nobis, Regina Pacis, ora pro nobis”).
Si terminava col “Salve Regina”. Le voci erano intonate, accorate. E al di là della quasi totale ignoranza dei contenuti, esprimevano sentimento, coralità, senso di appartenenza e a me facevano venire i brividi.
Ricordo anche canti di guerra, la cui fine era ancora vicina (“Vecchio scarpone”, ”Quando saremo fora della Valsugana”, “Sul ponte di Bassano”…).
Quando il parroco era rientrato in canonica ed i corpi e gli animi si erano adeguatamente riscaldati, per il calore del fuoco e per le bevute, i canti si facevano più “terreni”, mi verrebbe da dire quasi goliardici, e pieni di doppi sensi, che assumevano per noi bambini il valore di primi rudimenti di educazione sessuale.
Si iniziava con “La mula de Parenzo”, “La strada del bosco” e si procedeva con “Lo spazzacamino”. Mentre gli adulti cantavano, ridevano e ogni tanto gridavano “IHH PAN E VIN !!”, che erano le cose ritenute basilari per la sopravvivenza in quegli anni, i bambini si rincorrevano e giocavano attorno al falò...
Quasi nessuno capiva qualcosa del contenuto (ricordo che iniziavano con “Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Dei genitrix, ora pro nobis…” e terminavano con “Regina Sanctorum Omnium, ora pro nobis, Regina Pacis, ora pro nobis”).
Si terminava col “Salve Regina”. Le voci erano intonate, accorate. E al di là della quasi totale ignoranza dei contenuti, esprimevano sentimento, coralità, senso di appartenenza e a me facevano venire i brividi.
Ricordo anche canti di guerra, la cui fine era ancora vicina (“Vecchio scarpone”, ”Quando saremo fora della Valsugana”, “Sul ponte di Bassano”…).
Quando il parroco era rientrato in canonica ed i corpi e gli animi si erano adeguatamente riscaldati, per il calore del fuoco e per le bevute, i canti si facevano più “terreni”, mi verrebbe da dire quasi goliardici, e pieni di doppi sensi, che assumevano per noi bambini il valore di primi rudimenti di educazione sessuale.
Si iniziava con “La mula de Parenzo”, “La strada del bosco” e si procedeva con “Lo spazzacamino”. Mentre gli adulti cantavano, ridevano e ogni tanto gridavano “IHH PAN E VIN !!”, che erano le cose ritenute basilari per la sopravvivenza in quegli anni, i bambini si rincorrevano e giocavano attorno al falò...
Elide Da Ros