Parlare di tradizioni popolari, per quanto riguarda la nostra zona e le frazioni del comune di Caneva, relativamente agli anni ’50, significa più che altro riferirsi a riti che si ricollegano all’anno liturgico o a qualche reminiscenza del mondo pagano.
La vita quotidiana di comunità sostanzialmente “chiuse” si riduceva prevalentemente a CASA, FAMIGLIA, CHIESA, e tutto ruotava attorno a queste realtà.
Sono nata nel1950 a Fratta di Caneva, figlia di contadini mezzadri, e quindi posso rievocare riti, più che altro a carattere religioso, che si riferiscono a quell’ambito familiare e paesano e che abbracciano un periodo di tempo abbastanza breve, giusto una decina d’anni, perché a partire dalla fine degli anni ’50 o al massimo dall’inizio degli anni ’60, epoca in cui è stata portata avanti la Riforma Agraria e sono cominciate le emigrazioni di ultima generazione, è finito anche il nostro Medio Evo.
Sono nata nel
Da quel momento si è verificata una specie di “diaspora” per le famiglie che per anni avevano occupato sempre le stesse case, lavorato gli stessi terreni e condiviso la vita di comunità, così la maggior parte di quei riti e di quelle tradizioni sono andati persi o hanno assunto altre connotazioni.
Ciò che io riferisco non ha ovviamente alcun valore assoluto, perché è solamente frutto dei miei ricordi di bambina, suffragati in qualche caso da quelli dei miei genitori, entrambi ultraottantenni.
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Passati Natale e Capodanno, il primo rito annuale di una certa importanza veniva celebrato la sera del 5 gennaio, cioè la vigilia dell’Epifania ed era il PAN E VIN, ora conosciuto come FALO’.
In quegli anni si sentiva sempre ripetere il detto “Santa Lucia (13 dicembre) è la giornata più corta che ci sia”.
Ora sappiamo che ciò non corrisponde a verità, ma era un ricordo dell’antico calendario giuliano.
In ogni caso, si diceva che, per quanto riguardava le ore di luce, si recuperava, dopo la giornata più breve dell’anno, “A Nadal, un pie’ de un gal”, “A Pasquetta (Epifania) mezz’oretta” e quindi con il falò si festeggiava il ritorno della luce dopo il lungo periodo invernale.
Nel mio paese tutte le famiglie, nelle settimane precedenti l’evento, raccoglievano ramaglie di risulta delle potature, del taglio degli alberi per far legna, di sterpaglie varie, foglie secche, paglia, fieno e le portavano in una radura, abbastanza vicina alla mia abitazione.
Veniva scavata una buca e issato un lungo palo, alla sommità del quale si legava un fantoccio di stracci, la cosiddetta “vecia”, che rappresentava l’anno appena passato, con tutte le cose brutte e le disgrazie che si era portato dietro.
Attorno al palo si radunava il materiale da bruciare, e tutto era fatto il giorno stesso dell’accensione, perché c’era sempre il fondato timore che qualcuno rovinasse la festa, incendiandolo prima dell’ora prevista.
Questo non sarebbe stato di buon auspicio, ed io ricordo più di una volta la rabbia e la delusione negli occhi della gente che, tentennando il capo, prevedeva che le cose quell’anno sarebbero andate peggio del solito, per colpa di qualche “disgraziato”, certamente non uno del gruppo che aveva collaborato alla preparazione del falò...
continua... Elide Da Ros
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