mercoledì 22 febbraio 2012

 Lavandaie, portinaie, operaie, segretarie di un’epoca vicina eppur lontana

Quelli di noi che hanno, ahimè, i capelli bianchi ricordano che prima dell’avvento della lavatrice, praticamente prima degli anni Sessanta, il lavaggio dei panni era un problema. Nelle case più o meno borghesi si svolgeva il rito, per lo più settimanale, della venuta in casa di una lavandaia, che, da noi, quasi sempre proveniva dall’hinterland sloveno.In tempi ancora precedenti, nei secoli scorsi e  fino agli anni ‘20 del Novecento, era consuetudine che le lavandaie si recassero dai clienti a prelevare i panni sporchi che riportavano dopo averli lavati. Queste lavoratrici erano numerose e sicuramente la loro attività contribuiva molto ad attenuare la cronica crisi occupazionale della nostra collettività. 
Subito dopo la fine della seconda guerra mondiale entrò come lavandaia a casa nostra la signora Anna e vi rimase fino agli inizi degli anni ’60, quando, per raggiunti limiti di età venne sostituita da una gloriosa Candy. Le lavandaie erano in genere donne che arrotondavano in questo modo il magro stipendio del marito il quale, il più delle volte, ne spendeva la maggior parte in osteria. La nostra signora Anna era una di queste ed oltre ad avere un marito di tal sorte, ne doveva subire spesso le intemperanze, di cui portava i segni (e non era l’unica, ne conoscevamo un paio che facevano più o meno la stessa vita). La lavandaia, in genere, passava l’intera giornata a casa della famiglia in cui prestava la sua opera fino a diventarne, a lungo andare,  quasi un membro effettivo. Si instaurava così un rapporto talmente stretto che la “padrona”, se così si può chiamare, ne diventava la confidente. La lavandaia era generalmente una donna robusta e di buona salute. La nostra signora Anna arrivava da noi il lunedì mattina e se ne andava a pomeriggio inoltrato. Mia madre le preparava l’orna (grande mastello in ferro zincato) con la banchiera già in ammollo, che Anna insaponava e sbatteva energicamente sulla tavola da lavare. 
Mentre lavorava raccontava a mia madre le sue vicissitudini familiari, ma sempre in modo sereno, quasi con rassegnata accettazione della sua condizione. A metà mattina c’era un break: mamma preparava un robusto panino con il prosciutto ed un bicchier di vino, che lei beveva tutto d’un fiato. Pranzava con noi e trattava mio padre con il rispetto che giudicava dovuto al suo datore di lavoro. Prima di riprendere il lavoro, appena mio padre se n’era tornato in ufficio, saliva da noi la portinaia a portarci la posta ed a fare quattro chiacchiere, La signora Teresina incarnava il perfetto prototipo della portinaia. Ciarliera, impicciona, controllava chi entrava ed usciva, sapeva tutto di tutti ma era benvoluta dagli inquilini. Aveva un marito che era la fotocopia di quello della signora Anna e talvolta gli inquilini dovevano andar a sedare le liti. Anche lei a tempo perso faceva la lavandaia, ma mia madre non la giudicava all'altezza della signora Anna (usava poco sapone, sbatteva poco la biancheria ed eccedeva in prodotti sbiancanti che, a lungo andare, bucavano la biancheria, perché troppo aggressivi). 
Le portinaie di una volta...
Oltre a fare il normale lavoro di portineria scopava e lavava le scale e, all’occorrenza, faceva piccole commissioni per gli inquilini. Fungeva talvolta anche da baby sitter: io adoravo andare dalla signora Teresina quando mia madre doveva andare dal dentista. Mentre io facevo i compiti, lei mi raccontava un sacco di storie della sua gioventù e mi aiutava a fare i lavori a maglia che la maestra ci dava per casa, essendo io negata per questo tipo di attività. La signora Teresina continuava ad essere una fervente monarchica: sui vetri della credenza, in cucina, erano infilate le foto della regina Elena, del re Umberto e della regina Maria José.  C’era anche la foto del suo primo marito, della Madonna addolorata e del Sacro Cuore. L’uso di infilare foto e santini nei vetri della credenza era una cosa normale, all’epoca; tutto ciò è sparito con l’avvento della cosiddetta “cucina americana”. Finita la visita della signora Teresina, la signora Anna continuava la “lissia” e quando arrivava all’ultimo risciacquo versava nell’acqua una polvere azzurrante, il famoso PERLIN, che dava alla biancheria un effetto sbiancante. Prima di andarsene, mentre mia madre le preparava un caffè corretto grappa, prendeva accordi con la mia santola di cresima, che abitava sul mio stesso pianerottolo, per andare a fare il bucato da lei. Mamma, oltre alla giusta mercede, infilava nella borsa della signora Anna un sacchetto di caffè Hausbrandt ed un pacco di zucchero, raccomandandole di tenerli fuori dalla portata del marito che, altrimenti, non le avrebbe dato i soldi per comprarne ancora.
La mia santola faceva la capo-reparto in un laboratorio che produceva wafers, praline al cioccolato, gianduiotti ed altri prodotti dolciari. Il personale era tutto femminile e lei lo coordinava con pugno di ferro. Bravissima anche nel lavoro di pasticceria, non tollerava indolenze o prese di posizione autonome da parte del personale. A fine giornata controllava che i macchinari fossero stati tutti ben puliti e messi in sicurezza,  che il prodotto fosse stato inscatolato a dovere (solo dopo si poteva chiudere le scatole), che il laboratorio fosse stato pulito e lavato, pronto per la giornata successiva. Al mattino, prima di iniziare il lavoro, cuffiette e grembiuli delle operaie dovevano essere immacolati e nessun capello doveva fuoriuscire dal copricapo. Non era molto amata dal personale per questa sua rigidità, ma sicuramente aveva ben in mente quali fossero i criteri da adottare per garantire un lavoro fatto a regola d’arte. Non avrebbe sfigurato in nessuna delle industrie del giorno d’oggi, dove l’efficienza è richiesta a tutti i livelli. Avendo sempre lavorato, aveva aumentato il ritmo dopo la separazione dal  marito, ma giudicava l’indipendenza economica della donna assolutamente irrinunciabile, anche se sposata. Come lei ragionavano anche alcune amiche di mia madre che lavoravano pur non avendone bisogno. Negli anni ’50 lavoravano generalmente solo le donne che ne avevano assoluta necessità, per  lo più appartenenti al ceto basso, mentre le altre, se lo facevano, era solo “per togliersi qualche capriccio”, come diceva mia nonna.

Segretaria con una  Remington
Nel laboratorio diretto da mia santola c’era anche una segretaria. Aveva un ufficio che, da un lato si affacciava sul corridoio d’entrata, in modo da vedere chi entrava ed usciva, e dall’altro dava direttamente sul laboratorio vero e proprio. Non aveva quindi finestre in quanto collocato proprio all’interno del locale e
necessitava quindi di luce artificiale. All’epoca giudicavo la soluzione alquanto infelice, senza sapere che la teoria degli uffici posti direttamente “in fabbrica” sarebbe stata adottata a partire dagli anni ’90 prima dalla Fiat e poi, ahimé, anche dall’Electrolux. Adoravo stare nell’ufficio della segretaria. La signorina Elsa lasciava che me ne stessi seduta, in silenzio, ad osservare il suo lavoro. Ricordo che c’era una scrivania (un “pulto”) di legno massiccio con i cassetti ai lati e  con sopra una cartella ricoperta di carta assorbente, la boccetta dell’inchiostro con la penna, i timbri, il tampone assorbente, una lampada da scrivania, matite, gomme da cancellare, carta per machina da scrivere, carta carbone e carta velina per le copie. La macchina da scrivere, una Remington, troneggiava a fianco. La signorina Elsa batteva a macchina velocemente (solo in seguito avrei imparato a mie spese quanto bisognava pestare sui tasti, prima dell’avvento della macchina da scrivere elettrica). Il telefono, nero, alto, stava su un tavolino a parte. Dietro, alle spalle della signorina Elsa c’era un mobile in legno massiccio con chiusura a serranda che fungeva da archivio. I raccoglitori, di cartone, legati con le fettucce, portavano etichette indicanti il contenuto ed alcune cartelline sciolte stavano sugli scaffali in basso.

Donne in una fabbrica di dolci
Ad ogni apertura della porta del laboratorio, un campanello suonava nell’ufficio, cosicché la signorina Elsa controllava subito chi fosse il visitatore, in modo da annunciarlo al suo capo nonché proprietario, che  quasi sempre stava dando una mano alle operaie. La signorina Elsa vestiva un grembiule nero di satin, chiuso ai polsi con gli elastici, unico vezzo un collettino di pizzo fatto da lei, che dava un po’ di luce al suo viso. Sempre sorridente, amava il suo lavoro e certamente non aveva la settimana corta né usciva dall’ufficio ad ore decenti, mentre le operaie avevano un turno di lavoro prestabilito (che, comunque, era un turno lungo).
Se non c’era il padrone, le operaie potevano chiacchierare o anche canticchiare, ci pensava comunque mia santola a controllare che il ritmo di lavoro non ne risentisse. A detta di mio padre, i dipendenti erano ben pagati, rispetto alla media di altre piccole aziende e tutti in regola con i contributi (cosa, questa, piuttosto rara all’epoca, a meno che uno non lavorasse in una grossa azienda). Con l’avvento dei prodotti dolciari fatti e distribuiti dalle grandi aziende, i piccoli laboratori erano destinati a sparire. Il gusto di quei wafers e di quelle praline al cioccolato restano, per me, inimitabili. E quando alle esposizioni di antiquariato vedo in vendita scrivanie ed armadi a serranda, di noce (ce ne sono ancora e di molto belli), con calamai e quant’altro, il mio pensiero va sempre a quell’ufficio, di cui mi sembra di risentire ancora l’odore, che ha fatto da sfondo ai miei sogni di bambina.                                         
                                                                                                                   Lucia Accerboni