venerdì 10 febbraio 2012

Ritratto a lume di candela

Giovanna aprì il portone e si ritrovò nell'atrio dello stabile; notò che la passatoia che portava fino all'ascensore era stata sostituita di recente e che il rosso brillante scelto non disturbava affatto il verde dei marmi alle pareti.
La cassetta della posta era piena di pubblicità, che prelevò con insofferenza, visto che anche a casa sua non passava giorno che non arrivasse qualche avviso di offerte sconto.
Decise di fare a piedi i due piani di scale che l’avrebbero portata al “suo” appartamento, come aveva precisato il notaio, all’atto della successione. (“Lei è figlia unica e quindi unica erede, non deve dividere niente con nessuno. Mi creda, è una fortuna, alle volte, ho visto liti e cause infinite tra eredi anche per patrimoni di scarsa consistenza”).
Arrivata davanti alla porta, ebbe un attimo di esitazione; dall’altra parte non l’aspettava più nessuno. Non avrebbe sentito il ciabattare di sua madre, né la radio o la TV che suo padre teneva ad alto volume, vista l’inevitabile sordità dovuta alla vecchiaia ed il rifiuto ad usare l’apparecchio acustico. Due giri di chiave per la serratura di sopra e tre per quella di sotto e la porta si aprì con un po’ di difficoltà “Devo ricordarmi di oliare i cardini” si disse Giovanna.
L’appartamento l’accolse con un caldo soffocante (quel mese di luglio era particolarmente torrido e afoso) e lei si affrettò subito a spalancare le porte finestre per far entrare l’aria. Nella camera dei suoi genitori i vestiti di sua madre erano ancora sulla spalliera della sedia, come se fosse appena rientrata da una passeggiata. Spalancò l’armadio: i vestiti di suo padre erano ancora lì, appesi, dopo 10 anni. “Una bella cernita e poi destinazione Caritas” pensò Giovanna. Ma il solo pensiero di fare quest’operazione le mise addosso una tale malinconia che decise di passare in soggiorno, la stanza più luminosa di tutta la casa. Alle pareti quadri ben noti: un sentiero in un parco, con cespugli di rose, a fianco delle peonie in piena fioritura (gli autori erano vecchi amici di suo padre; ricordava ancora i pomeriggi passati assieme a lui nell’atelier dei due pittori), sulla parete di fronte una donna mollemente distesa su un letto, su un fianco, intenta alla lettura (quadro di fine ottocento eredità della nonna paterna), alcune stampe e… mancava qualcosa.
Dov’era il quadro che lei tanto amava? Non si stancava mai di guardarlo, perché sua madre l’aveva tolto e dove lo aveva appeso? Spalancò la porta dello studio e lo vide: stava sulla parete attrezzata a libreria, accanto a una foto che la ritraeva adolescente, sul lago di Como, dov’era andata in gita con suo padre, negli anni cinquanta.
Giovanna fissò il quadro per imprimersi bene in testa tutti i particolari, come se non lo conoscesse a memoria. Ogni volta che lo guardava scopriva nuovi dettagli; dipendeva dalla luce che vi batteva sopra e dall’angolatura dalla quale lo si guardava. Il pittore aveva fatto davvero un bel lavoro.    
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Giuliano saliva con passo veloce la stretta via che conduceva al colle.
Conosceva a memoria ogni pietra del selciato e le vecchie case che si affacciavano sulla via, ci era nato, in una di quelle. 
La strada era appena dietro alle rive, un leggero vento di bora portava odore di mare e il grido dei gabbiani  giungeva forte e intenso fino a lì.
La luce del tramonto riusciva ad infilarsi a fatica in quel dedalo di viuzze, illuminando per un breve lasso di tempo le finestre senza imposte delle case addossate l’una all’altra, quasi si tenessero su a vicenda. S’infilò in un portone buio, salì una breve rampa di scale e bussò a una porta che normalmente era sempre aperta. “Avanti”, gridò Gina “sono in camera”.
L’appartamento constava di un’ampia cucina, piuttosto buia, visto che dava sul cortile interno, ma la camera godeva di due ampie finestre che davano sulla via e dalle quali, sporgendosi, si poteva vedere il mare. La camera di Gina fungeva da camera da letto e da atelier. Gina faceva la sarta, ma anche la pittrice, a tempo perso ed era davvero brava.
Prima della guerra (la prima) aveva studiato alla Scuola di Belle Arti, la famiglia se lo poteva permettere, ma poi, alla fine del conflitto, il mondo in cui era vissuta e le certezze di cui si era nutrita erano crollate ed era stato giocoforza adattarsi.
Di pittura non si campava, per cui il suo sostentamento proveniva dal lavoro di sarta.
Il marito “navigava”, come si dice: per un breve periodo Giuliano e suo marito avevano navigato assieme, poi si erano imbarcati con due differenti compagnie di navigazione che facevano rotte diverse, ma l’amicizia non era mai venuta meno. Giuliano ed il marito di Gina, Vittorio, si erano conosciuti in guerra, 97° reggimento di fanteria dell’esercito austro-ungarico, prima in Boemia, poi in Galizia e infine sul fronte rumeno. Al ritorno a casa, spaesati, senza alcun punto di riferimento, avevano fatto tesoro degli studi nautici e deciso di girare un po’ il mondo, navigando.
Vittorio non faceva scali frequenti nella sua città e comunque sempre per brevi periodi.
Spesso Giuliano si chiedeva perché Gina non andasse ad abitare in un’altra zona, dove c’erano appartamenti più nuovi, dotati di ogni comodità e dove avrebbe potuto avere una stanza da adibire ad atelier di pittura, ma Gina rispondeva che voleva stare lì, perché suo marito, quando ritornava a casa, ci impiegava meno di cinque minuti dal molo di attracco al portone di casa e lei poteva già vedere la sagoma della nave quando entrava in rada.
Giuliano era un vagabondo; dopo che era “sbarcato” ora faceva il meccanico in un’officina (aveva una passione per le automobili), ma già scalpitava per trovare un altro lavoro.
Abitava con la madre, vedova, e tre sorelle, nella via accanto a quella di Gina, ma il più delle volte si faceva ospitare da amici, che non chiedevano di meglio, visto che teneva allegra la compagnia e sapeva accompagnarsi alla chitarra, senza peraltro disdegnare il pianoforte.
Si dilettava anche di pittura, senza  aver però mai approfondito. Ogni tanto passava a salutare Gina, le chiedeva del marito, beveva un caffè e se andava verso altre mete, che includevano le numerose osterie dislocate nel rione, dove si poteva giocare a carte e stare in compagnia.
Gina stava finendo di orlare un abito, era in ritardo nella consegna e doveva affrettarsi. Giuliano le si sedette di fronte, parlarono del più e del meno, di conoscenti comuni, mentre le dita di Gina facevano scorrere velocemente l’ago nel sottopunto.
Lei alzò un attimo gli occhi, ruppe il filo (l’orlo era terminato) e improvvisamente gli disse:”Voglio farti un ritratto.” “Perché?” chiese Giuliano. “Perché mi va” rispose lei “e poi te lo regalo”.
Era da un po’ che ci pensava: Giuliano aveva folti capelli neri, ondulati, occhi di un grigio scuro (retaggio della nonna spagnola), mani affusolate, sempre ben curate, aveva un’eleganza innata nel vestire. Il fatto che una delle sorelle facesse la camiciaia e un’altra la pantalonaia lo aiutava molto nel guardaroba. “Vieni domani pomeriggio dopo le sei” disse Gina “per quell’ora avrò finito il mio lavoro di sarta e potrò dedicarmi a te”.
A Giuliano parve una cosa strana presentarsi all’ora del tramonto; aveva sempre pensato che i pittori preferissero dipingere in ambienti ben illuminati, ma, a onor del vero, a vedere certi quadri con atmosfere cupe c’era da ricredersi.
Decise che l’artista era lei e sua la decisione dell’ambiente di contorno.
Arrivò puntuale e attese che lei finisse di applicare un colletto di pizzo, dopo di che spuntarono fuori cavalletto, pennelli e colori.
La stanza era già lievemente in penombra, tra poco sarebbe stato necessario accendere un lume. Gina andò un attimo in cucina e ritornò con delle candele, che sistemò sapientemente, ordinando a Giuliano di mettersi in una posizione tale che il viso, leggermente inclinato, fosse appena sfiorato dalla tenue luce emanata e iniziò a dipingere.
Il lavoro richiese parecchie sedute e i mozziconi di candela stavano lì a dimostrare l’impegno dell’artista. Il volto dell’uomo fissato sulla tela aveva un che di malinconico e di pensoso, che stupì perfino Giuliano. La pittrice aveva colto un sentimento dell’animo che lui cercava di camuffare sotto atteggiamenti spavaldi e burleschi, ma che, evidentemente, l’artista aveva saputo cogliere al di là della facciata, aiutata, forse, in questo, anche dal suo essere donna.
Quando la tela fu terminata, Gina vi appose sul retro la propria firma e la data: 1930.
Il quadro subì, negli anni a venire, numerosi traslochi al seguito del vagabondare del suo proprietario, finché non approdò alla sua sede definitiva.
L’amicizia con Gina ed il marito si interruppe bruscamente quindici anni dopo l’esecuzione del quadro, quando entrambi finirono inghiottiti nei campi di sterminio.  
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Giovanna si riscosse: quel quadro, che suo padre amava tanto, l’avrebbe portato con sé, nella casa in cui viveva con suo marito, mentre avrebbe lasciato gli altri dov’erano, in modo che quando sarebbe ritornata a casa (sì, perché quella era comunque la sua casa) trovasse intatta l’atmosfera di un tempo, con tutte le cose al loro posto, com’erano sempre state, anche se non si poteva riavvolgere all’indietro il nastro della vita per salvare solo le cose belle e cancellare quelle brutte. Guardò ancora una volta il quadro, prima di avvolgerlo delicatamente in carta da giornale: chissà a cosa pensava suo padre mentre veniva ritratto; ormai era troppo tardi per chiederglielo.
Era troppo tardi per tutto; si pensa sempre di avere tanto tempo a disposizione e si rimandano chiarimenti e spiegazioni a dopo, mentre invece la vita scorre veloce e c’è sempre qualcosa di apparentemente più importante da fare, che ti impedisce di dedicarti di più a quelli che ti circondano.
La cornice aveva bisogno di essere rimessa a nuovo, l’avrebbe portata da un suo amico corniciaio che aveva bottega in centro, nella cittadina in cui ora abitava, vicino al fiume.

Finito il restauro, il corniciaio le chiese di poterlo tenere esposto per un po’, visto  che tutti quelli che entravano nel suo negozio finivano per essere catturati da quel ritratto e qualcuno aveva addirittura chiesto di acquistarlo.
E così, per un paio di settimane, il quadro fece bella mostra di sé in vetrina e Giovanna vide che parecchie persone  vi si soffermavano, commentando i particolari e chiedendosi chi mai fosse l’uomo che vi era ritratto.
Dopo averlo portato a casa, si pose il problema di dove metterlo.
Le pareti erano già ampiamente occupate: Giovanna voleva sistemarlo in un posto da dove fosse possibile vederlo da ogni parte della stanza.
E lo trovò, in un angolo tra una finestra e la parete, anche se l’illuminazione non era ideale.
Ma non si trattava, dopotutto, di un ritratto a lume di candela?
                                                                                                                           Lucia Accerboni