Le palacinche o palacsinte, come diceva la mia amica Viviana, che aveva il padre ungherese e quindi le chiamava con il nome usato in Ungheria, sono uno dei dolci maggiormente presenti sulla tavola della mia infanzia.
Mia madre le preparava all’ultimo minuto (vanno servite calde o almeno tiepide) ed io ne mangiavo già un paio prima di pranzo o di cena, senza aspettare il ripieno, la pura crèpe appena fritta.
Mamma le faceva classiche, ripiene di marmellata, oppure con la ricotta, con mele cotte e noci, con o senza uva passa.
Una spolveratina di zucchero a velo e voilà, il piatto era servito. Il segreto della preparazione consiste nel friggerle molto sottili e mamma, in questo, era maestra.
Un tipico samovar |
Tutto questo è affiorato alla mia mente qualche tempo fa, quando sono andata a trovare un mio carissimo amico che risiede anche lui a Sacile. Appena entrata in cucina il mio sguardo è stato catturato da un bel piatto di palacinche. Lui le aveva fatte fare alla badante russa appositamente per me (e per lui) perché, proveniendo noi da zone contermini (io da Trieste e lui dall’Istria), dove la cucina mitteleuropea la fa da padrona, era sicuro di farmi cosa gradita.
La signora russa, poi, non aveva avuto alcun bisogno di istruzioni per prepararle, visto che il piatto è noto anche in quel paese.
Le palacinche furono servite con il thè (thè russo, ruskj caj, precisò la badante) e questo mi fece riandare ancora alla mia infanzia, in quanto mia madre, mia nonna e mie zie così chiamavano il thè classico. Immagino che ci sia un motivo dietro a questa denominazione, ancora in uso oggigiorno a Trieste da parte delle persone più anziane. Tento un’ipotesi: poiché la pianta del thè non è coltivata in Russia, ma i russi sono forti consumatori di thè, che preparano utilizzando l’acqua calda del samovar, utensile usato anche nei paesi slavi, presumo che per thè russo si intenda una bevanda molto concentrata preparata secondo i dettami della cultura russa.
Lucia Accerboni