L’alba livida non
prometteva niente di buono.
Raffiche di vento fendevano l’aria e una fitta,
gelida e fastidiosa pioviggine mista a neve non invitava nessuno a mettere il
naso fuori della porta.
Eppure l’inverno stava per finire: marzo era
iniziato da più di una settimana e il sole, quando c’era, aveva il sapore della
primavera.
Vanni, quella mattina, non sarebbe andato a scuola. Era domenica e
il nonno gli aveva promesso che sarebbero andati in baita, sul costone roccioso
della montagna che dominava il paese. Avrebbero portato con loro il fido
Mastino, un pastore maremmano grande e grosso, buon compagno di
giochi all'aria aperta. Vanni non stava nella pelle, sperava di
cogliere il primo risveglio della natura dopo la lunga notte dell’inverno.
Aveva letto sui libri di scuola, e la maestra gliene aveva parlato, che molti
animali, con la fine dell’inverno, uscivano dal letargo
e scorrazzavano per i prati.
E poi, andare in baita significava quasi
essere adulti, camminare per almeno un paio d’ore, portare con sè il
pranzo, vestirsi in modo adeguato… insomma vivere un’avventura. Col naso
schiacciato sul vetro della finestra, osservava il tempo e temeva che il nonno
ci avrebbe ripensato. Ma, come spesso avviene in montagna, il tempo muta
facilmente e, col passare delle ore, il sole aveva avuto ragione delle nubi e
del vento gelido dell’alba.
Speranzoso si era
precipitato nell'appartamento del nonno, al piano sottostante,
seguito,questa volta, dalla sorellina Gea, più piccola di lui, ma vivace e
spigliata come una donnetta. “ Voglio venire anch'io! Voglio venire con
voi! - strepitava Gea - sono abbastanza grande e ho fatto esperienza nel
reparto scout, e poi è primavera! Voglio vedere se il ruscello si è fatto strada
nella neve , voglio...” Erano tanti i desideri di Gea e tanta l’insistenza che
bisognava accontentarla.
Vanni non era contrario, ma l’idea non lo
entusiasmava. Il nonno sulle prime obiettò che era pericoloso, che era
faticoso… ma poi, visto l’insistenza della nipote, ottenuto il benestare dei
genitori e rassicurato dalle condizioni meteorologiche, accondiscese. Vanni
andò a prelevare Mastino dalla sua cuccia il quale, come se avesse intuito la
scampagnata, non finiva di saltellare intorno ai due ragazzi.
Equipaggiati per
l’occasione, dopo una abbondante colazione, si avviarono, zaino in spalla e
borraccia a tracolla mentre il nonno non smetteva di dare consigli e
avvertimenti.
Una vecchia “500
familiare” , abituata a trasporti di ogni genere, ospitò i cinque viaggiatori.
Il tragitto non era lungo, ma non si poteva arrivare a piedi fino al Parco
Nazionale.
La baita del nonno era proprio lì, ai confini del Parco e a mezza
costa delle prime alture ma, per raggiungere il sentiero, bisognava percorrere
almeno una decina di chilometri in auto.
Non si stava molto comodi in
“ carrozza”, anche perché Mastino, forse soffrendo di claustrofobia, non
stava un minuto fermo.
Il sole era
abbastanza alto quando iniziarono la salita. Il nonno contava di arrivare alla
baita prima di mezzogiorno, governare l’ambiente, dare aria al locale e
metterlo in condizioni di essere abitato: almeno per quel giorno e per quelle
poche ore.
Arrivati che furono, mentre il nonno si dedicava ai necessari lavori
di manutenzione, i due ragazzi si dedicarono alla raccolta della legna
perché anche se c’era il sole, occorreva accendere il fuoco nel camino, un po’
per riscaldare l’ambiente, un po’ per arrostire i funghi che il nonno, da buon
intenditore, aveva raccolto.
Mastino, libero di correre, spesso si lanciava all'inseguimento di
qualche giovane marmotta o saltava nell'improbabile tentativo di
afferrare al volo qualche gallo forcello: tentativi sempre falliti,
buoni però per far divertire Vanni e Gea. Consumate all'ora di
pranzo le provviste che avevano portato e festeggiato con i funghi la
scampagnata, i ragazzi avevano ripreso a rincorrersi fino al ruscello
parzialmente sgombro di neve.
Fu in una di queste scorribande che il nonno vide
Mastino, parte attiva delle corse sul prato, irrequieto più del solito.
Entrava ed usciva dalla baita emettendo dei guaiti come fossero gemiti;
poi, all'improvviso, abbaiava furiosamente e addentava i calzoni del nonno
trascinandolo fuori della baita. Il nonno non capiva, ma il comportamento
del cane lo insospettì. Uscì all'aperto e non vide i
nipoti. Cominciò a chiamarli, a cercarli intorno alla casa, pensando che
stessero giocando a nascondino.
Poi, allarmato dai latrati del cane e temendo
il peggio, si lasciò cadere per un momento sul ruvido sedile di legno davanti
casa.
Non si dava pace. Possibile, si chiedeva, che i due ragazzi fossero
spariti o fossero così lontani da non sentire i suoi richiami ? Il cane intanto
smaniava sempre di più: correva in una direzione e ritornava abbaiando verso
il ruscello. No, non era
possibile, pensava il vecchio: lì iniziava la scarpata e il terreno era, oltre
che franoso, pieno di rovi. Cento, duecento… mille passi e altrettanti pensieri
frullavano nella testa del nonno mentre correva dietro al cane…
I due ragazzi
erano proprio lì, in una intricata e fitta macchia di arbusti, trattenuti sul
dirupo da frassini e carpini nani oltre a provvidenziali rami di cornioli e
rose di macchia, in una posizione difficilmente raggiungibile se non con degli
attrezzi adatti al recupero. Stavano inseguendo un gallo cedrone, dissero, e
non si erano accorti...
Erano
vivi, coscienti, intirizziti dal freddo che incominciava a farsi sentire, ma
erano vivi. Il nonno li rincuorò. Fece loro capire che dovevano essere forti,
avere pazienza e soprattutto non fare alcun movimento per non aggravare la
situazione: presto li avrebbe tirati fuori. Poi intimò al cane di non
allontanarsi, di non abbandonare i ragazzi…Lui sarebbe tornato prima possibile.
Non è
dato sapere se Mastino avesse ben capito le parole del nonno. Sta di fatti che
non si mosse. Di lì a poco il vecchio tornò con una lunga e resistente fune,
munita di un gancio ad uno dei capi e usata in baita per fasciare la legna e,
uno alla volta, imbragato alla meglio, tirò fuori prima Gea, che il fratello
aveva ben assicurata alla corda, poi Vanni, anche lui, come la sorella, segnato
dalla paura e dal sangue delle ferite prodotte dai rovi.
In baita, dopo una
sommaria ricognizione dei danni, disinfettate e incerottate le ferite col
materiale di pronto soccorso a disposizione ci si fermò poco. Il sole volgeva
al tramonto e bisognava ridiscendere a valle prima che facesse buio. Nessuno
aveva voglia di parlare. Gea, di tanto in tanto, singhiozzava Vanni accarezzava
il cane che ricambiava scodinzolando furiosamente la coda. Era buio quando
arrivarono alla periferia del borgo dove avevano lasciato la “500”, ma si
vedevano le luci del villaggio e questo li rincuorò.
In auto i due fratelli si
appisolarono e Mastino, conscio del suo ruolo, si acquattò tra di loro
scaldandoli col tepore del suo lungo pelo. Il nonno li riportò a casa che ormai
era notte, e al posto del solito “buonanotte” li salutò con un “ Pensateci
ragazzi! Pensateci… i rovi,
che tanto vi hanno fatto male, vi hanno salvati: più in basso, in fondo alla
scarpata, dove il ruscello si interra per poi riemergere più a valle, c’è una
spelonca, una voragine, nella quale si favoleggia che abitino gnomi, folletti
e, forse, anche qualche strega!”
Giovanni Coluccia - Ancona, marzo
2014.