mercoledì 28 dicembre 2011

Un cappotto color cammello

 Gli addetti comunali stavano smontando gli addobbi natalizi e già i negozi esibivano i cartelli dei saldi. 
Francesca guardava distrattamente le vetrine, non c’era niente di cui avesse veramente bisogno e d'altronde i prezzi non invogliavano certo all'acquisto.
Troppo cari, anche per articoli in saldo.
Passando da un negozio all'altro vedeva la sua immagine riflessa nel vetro: una signora di mezza età, le spalle leggermente ingobbite (Dio, quanto assomigliava a sua madre, in questo), il viso un po’ tirato, i folti capelli castani, ravvivati dalle sapienti cure del parrucchiere, nascosti da un cappello di foggia maschile, la figura appena ammorbidita sulla quale, tutto sommato, il tempo non aveva infierito troppo.
Francesca si era presa un giorno di ferie prima di rientrare al lavoro - mi ci vorrà un giorno solo per rispondere alle e-mail - pensò, prima di mettere ordine nelle pratiche. Aveva seguito i consigli degli psicologici, che abbondavano sulle riviste femminili, per rimettersi dallo “stress delle vacanze natalizie” e presentarsi così al lavoro in perfetta forma. 
Non che ci credesse, Francesca, a questi suggerimenti, ma aveva sentito il bisogno di prendersi un  giorno solo per sé. Sollevò il bavero della pelliccia per ripararsi dall’aria umida, che riusciva ad intirizzirla anche se lei usciva di casa “scafandrata”, come diceva ironicamente suo marito. Francesca aveva sempre la sensazione di non essere coperta a sufficienza, d’altronde, a quel clima umido, lei non si era mai abituata totalmente. 
La giornata uggiosa non era la più adatta per andar per negozi, ma a Francesca la fine delle feste natalizie metteva sempre un po’ di malinconia. Disfatto l’albero, riposto il presepio, ricominciava la solita vita, il silenzio avrebbe ripreso possesso della sua casa. I figli e i nipoti si sarebbero limitati a visite diradate e suo marito, che quanto a conversazione non brillava di sicuro, si sarebbe scrupolosamente attenuto alle frasi indispensabili al vivere quotidiano. 
Francesca rispose al saluto di alcuni conoscenti e si soffermò sulla vetrina di un negozio per uomo, di recente apertura, nel quale suo marito, sul finire dell’estate precedente, aveva fatto alcuni acquisti importanti. 
Doveva riconoscere a suo marito un ottimo gusto nel vestire e quindi guardò con attenzione i capi esposti, nel caso ci fosse qualcosa che a Guido sarebbe potuto interessare. Del resto lui non badava a spese quando si trattava del suo guardaroba. Non era un rimprovero, Guido era generoso anche quando si trattava di acquisti per lei, era solo una constatazione, si disse Francesca. 
Il suo sguardo scivolò su pantaloni e giacche e fu attirato, inevitabilmente, da un cappotto color cammello. 
Non era mai riuscita, Francesca, a far comprare a suo marito un cappotto cammello. 
Non era il suo genere, diceva che il tessuto era troppo delicato, il colore troppo chiaro. Ma lei si ostinava, inutilmente. Il cappotto aveva un taglio impeccabile, sbottonato e leggermente aperto, sembrava tendere verso di lei. Francesca rimase lì, incollata alla vetrina e istintivamente  chiuse gli occhi per un attimo, il tempo di vedere un cappotto cammello  venire svolazzando verso di lei, correndo giù per la scalinata.  
L’aria era frizzante, il vento aveva avuto ragione delle nubi e Ugo le veniva incontro, il cappotto sbottonato, il sorriso sfrontato, che tanto piaceva alle sue compagne di liceo e che aveva stregato anche lei.
Francesca affondò le mani in quella stoffa morbida, dimenticando all’istante che lo aveva atteso a lungo, tutta intirizzita (quante volte aveva contato le navi in rada, seguito il volo dei gabbiani, che facevano ampi giri sul golfo prima di tuffarsi fra le onde, con uno stridio il cui eco giungeva fin lassù), ma Ugo era fatto così, sui suoi orari (e non solo su quelli) non si poteva contare. Lui adduceva i pretesti più inverosimili, il più delle volte era colpa di suo padre che lo aveva trattenuto in negozio. 
Anche per questo, diceva lui, non aveva mai tempo per fare i compiti. Sarebbe stata così gentile da passarglieli? Francesca non si sentiva sfruttata, per questo, lei lo amava e per lui avrebbe fatto qualsiasi cosa. Ma Ugo, l’amava? A modo suo. Si accontentava di poco, Francesca. Qualche uscita prima di cena, molto breve (sennò chi lo sentiva, suo padre), la passeggiata sul Corso durante la bella stagione, qualche cinema d’inverno (il teatro, no, a Ugo non piaceva e Francesca ci andava con le amiche) e al mare d’estate, assieme a tutta la compagnia.
Si ritrovavano tutti alla fermata del tram, al mattino, e poi in spiaggia fino a sera, i bagnini dovevano buttarli fuori dallo stabilimento, se volevano chiudere. 
E poi gli anni all’università, Ugo un po’ spiazzato, perché avevano scelto facoltà diverse e Francesca non poteva più aiutarlo. E il tempo che lui passava al negozio, con suo padre, per impratichirsi e le sue assenze per le sfilate di moda, a scegliere i capi da acquistare . Ma le era fedele, Ugo? Francesca non voleva porsi il problema, anche se in cuor suo sperava di sì; lui tornava sempre da lei e solo questo contava. 
Lei lo conosceva bene, o almeno così credeva; sotto quella maschera da uomo vissuto Ugo nascondeva un carattere un po’ fragile (forse troppo succube del padre, pensava Francesca), a volte aveva bisogno di essere spronato, di credere in se stesso, nelle sue capacità (e ne aveva, bastava che le tirasse fuori).
E con gli anni lui aveva abbandonato gli atteggiamenti un po’ sbruffoni, con lei  era sempre gentile, scherzoso, delicato nelle sue effusioni, attento ai suoi bisogni. E poi quell’ultima volta, Ugo che saliva in macchina, il cappotto cammello sempre sbottonato, lei lo aveva abbracciato a lungo, risentiva ancora la stoffa morbida sotto le sue mani.  “Ci vediamo tra un paio di giorni, poi possiamo andar a vedere quella casa che ti piace tanto”.  - Colpa del nevischio - dissero poi  i giornali  - che aveva reso la strada viscida.

Il vento soffiava gelido su quel piccolo cimitero di campagna. Sembrava scendere rotolando giù dai monti vicini, sibilando fra le pietre. Francesca s’impose di non guardare la bara calare nella fossa, doveva pensare ad altro. Le venne in mente una poesia che aveva scritto al liceo: ”Pietre traforate dal tempo, gemiti di vento fra i cespugli” e poi … Francesca si sforzò di ricordare come continuava. L’importante era di tenere la mente occupata altrove, fino alla fine della cerimonia, la fine di tutto.

Francesca chiuse la valigia con uno scatto e posò i biglietti dell’aereo sulla borsetta.
“Non ti piacerà” disse suo padre “troppo umido come clima. Non fa per te. E poi finirai con l’immalinconirti.” “Era un’occasione da non perdere” rispose Francesca “due anni a Bruxelles e poi si vedrà. Sarò in camera con Licia, siamo sempre state assieme, noi due, nelle nostre peregrinazioni, sappiamo come farci buona compagnia. E poi sarò in ufficio tutto il giorno, non avrò neanche il tempo di accorgermi del tempo che farà fuori.”
E così fu: ufficio e pensionato, con Licia che cercava di agganciare gli altri stagisti e di organizzare qualche uscita tutti assieme. L’estate regalò delle giornate assolate, inusuali per quella latitudine e allora Francesca si dedicò a lunghe passeggiate dopo l’ufficio, concedendosi qualche cena in uno dei tanti ristoranti italiani che si trovavano nelle viuzze del centro, dove si poteva finalmente bere un buon caffè, cosa di cui Francesca sentiva molto la mancanza.
L’accompagnavano talvolta due colleghi francesi, ai quali Francesca non aveva mai permesso di oltrepassare la linea dell’amicizia.
Le settimane ed i mesi scivolavano silenziosamente, ogni giorno prevedibile come quello che l’aveva preceduto, la porta dei ricordi tenuta ermeticamente chiusa. E poi quel giovane stagista italiano, educato, che Francesca incontrava continuamente nei corridoi, al caffè, in mensa, che veniva dalla sua stessa regione.  “Gli piaci” diceva Licia “non essere scostante, cosa ti costa fare amicizia con lui?” Ma Francesca aveva dentro di sé un nucleo duro di dolore, che non era ancora pronto a sciogliersi.  
Guido era caparbio e sapeva aspettare, aveva imparato ad ascoltare, qualità rara in un uomo. Iniziò così; per Guido era stato amore a prima vista, ma per Francesca che cos'era? Una solitudine da riempire, paura di un avvenire fatto solo di ricordi o qualcosa di diverso? Francesca non sapeva leggere dentro di sé e quando Guido le disse che lui faceva sul serio, fu presa dal panico. Prese tempo. Guido sarebbe rientrato in Italia prima di lei ed avrebbe atteso la sua risposta.  “Vengo a prenderti all'aeroporto” le disse il giorno prima del suo arrivo. “No” disse lei “vieni a prendermi in stazione”. 
Voleva avere più tempo per pensare. Due ore o poco più di aereo erano troppo poche, le quindici ore da passare in treno le sembravano un tempo sufficientemente lungo per mettere ordine nei suoi pensieri.
Ma barava con se stessa, sapeva già la risposta, quello che non sapeva ancora era se era stato il cuore o la ragione a suggerirgliela.
Francesca scese dal treno e s’incamminò verso l’uscita. Lo vide di spalle, all’edicola dei giornali; attese un attimo prima di chiamarlo. 
Quando Guido si voltò e le venne incontro, con una domanda muta sulle labbra, Francesca capì finalmente: la sua risposta veniva dal cuore.

Francesca si riscosse: una leggera nebbiolina era venuta calando poco a poco, ovattando l’atmosfera e smorzando l’alone giallognolo dei lampioni.
Un passante frettoloso la urtò leggermente, scusandosi  subito dopo.
Lei guardò l’orologio - doveva affrettarsi - pensò - Guido sarebbe rientrato tra poco, lui odiava cenare in ritardo. 
Gettò un ultimo sguardo agli articoli esposti: no, non c’era niente di interessante in quella vetrina.
                                                                                                                     Lucia Accerboni

Questo è il racconto con il quale la nostra amica Lucia ha vinto il primo premio al concorso indetto dalla Mondadori, e che è stato pubblicato nella rivista "Confidenze".
Per maggiori particolari vedi il post precedente cliccando qui.