Essere giovani non sempre significa "avere
l'età". Forse può indicare un sottile desiderio di cambiamento, di novità,
di rivelare a se stessi, insomma, con orgoglio e coraggio, che è ora di
rischiare, facendo proprie le parole di Alda Merini secondo cui "rischiare è una
necessità, e solo chi osa farlo è veramente libero". Questi sono i miei
"ragazzi", che oggi portano in scena loro stessi, col disincanto
degli anni perduti ma non dimenticati, indissolubilmente legati al desiderio di
conoscenza e di vita.
Dando alla parola il suo significato elementare di
"messa in scena ordinata" e non certo di "creazione" alla
francese, la regia di queste "anime in movimento" è consistita nel
trovare un criterio di valorizzazione della creatività e della competenza di
scrittura degli autori.
E questo criterio è consistito in una sorta di "zapping" tra
le storie e i ricordi, che chiede allo spettatore una certa disponibilità a
riallacciare fili che continuamente si sciolgono, cedendo il posto al
successivo per associazioni di idee, di temi, di atmosfere. In cambio di questa
disponibilità c'è la possibilità di gustare la differenza degli stili, le
peculiarità sempre fresche dei vocabolari di ciascuno scrittore, le curiosità e
i dettagli degli eventi ricordati. E in più, grazie anche alla scelta "di
gruppo e di collettivo" di scambiarsi i testi da leggere (ogni scrittore
legge il testo di un altro), il risultato finale, dove i cuori di ognuno dei
racconti non sono ancora spenti e sembrano pulsare in perfetta contemporaneità
e sincronia, produce, mi auguro, una bella emozione universale di umanità
condivisa, di valori semplici e imperituri, di sorrisi positivi. Certo c'è
stato il sacrificio inevitabile di qualche parte degli autori più generosi e
prolifici, ma spero che questo evento dal vivo possa essere uno spot, un
invito, una raccomandazione per trovare il modo di andarseli poi a rileggere di
filato, questi eccellenti autori, senza interruzioni e con tutto il tempo che
serve.
Ferruccio Merisi
***
Sulle tracce di Ulisse
di Paolo Bravin
Accanto a me ho una buona provvista di cibo e di
acqua, e allora il viaggio può iniziare.
Mi sono procurato qualche
attrezzatura che mi aiuterà in questa avventura che ho deciso di iniziare non
senza qualche preoccupazione.
Come viaggerò?
Quand'ero più giovane, un
amico che aveva una barca mi aveva insegnato qualche rudimento per governarla,
e ho imparato così che navigare è un modo piacevole di esplorare il mondo.
Non ho una meta precisa, anche se una vaga idea mi
frulla in testa.
Ho un desiderio di avventura,
ho voglia di conoscere cose nuove, di scoprire luoghi mai visitati prima, per
tenere vivi il più possibile la mente e il cuore.
Non siamo nati per vivere come bruti, diceva qualcuno
tempo fa...
Anche se, poi, quel qualcuno ha messo nell'inferno
l'eroe Ulisse, uno che cercava proprio virtù e conoscenza.
So di un luogo dove procurare degli
strumenti utili alla navigazione, e penso sia proprio il caso di visitarlo.
Devo equipaggiarmi al meglio, perché le insidie in
queste acque sono notevoli, quindi è necessario premunirsi.
Bisogna stare attenti specialmente alle moderne
sirene; si trovano in luoghi dove all'improvviso, senza che tu te ne renda
conto, vieni attirato da suoni e magie a cui fai fatica a resistere, e dalle
quali ti salvi solamente se reagisci fuggendo subito.
E serve a poco tapparsi le orecchie, perché vieni
ammaliato da immagini a dir poco sconvolgenti, e allora dovresti chiudere anche
gli occhi, ma poi a occhi chiusi come fai ad andare avanti?
A volte incontro altri naviganti, ci scambiano saluti
e informazioni, e chiedo a loro se hanno avuto problemi. Qualcuno mi dà le
coordinate di un luogo da evitare assolutamente; sembra che chi si aggira da
quelle parti venga contagiato da una misteriosa malattia, che si propaga con
estrema facilità. Dicono che si annida senza che te ne accorga e poi, quando è
ormai troppo tardi, esplode con tutta la sua violenza: è come un cavallo di
Troia.
Ringrazio per la dritta e proseguo il viaggio.
Finalmente arrivo dove avevo previsto.
È un sito tranquillo, e riesco
a procurarmi della strumentazione interessante, proprio quello che mi serviva
per muovermi con più sicurezza.
Ci vuole un po' per adattarla, ma poi tutto funziona al meglio
A questo punto, però, è meglio fermarsi a
riposare.
Dopo tante ore passate a navigare così in quel mondo
virtuale che si chiama Internet, un po' di riposo per gli occhi e per le dita
ci vuole proprio...
***
Viaggio fra le nuvole
di Elda Piai
Apro gli occhi e vedo, lontane, le montagne, il fiume,
le tempeste e il sole.
Erano i miei educatori e i
miei amici, e per molto tempo mi furono più cari e più noti che non gli uomini
e il loro destino.
Ma le cose preferite e a me ancor più dilette del
fiume splendente, degli alberi malinconici e delle rocce solitarie, erano le
nubi.
Mostratemi, nel vasto mondo,
l'uomo che conosca e ami le nuvole più di me. Oppure anche mostratemi una cosa
al mondo che sia più bella delle nuvole!
Sono gioco e conforto agli occhi, sono benedizione e
dono di Dio, sono collera e potenza mortale, sono tenere, delicate e pacifiche
come le anime dei neonati; sono belle, ricche e generose come angeli buoni; ma
sono anche delle scuri inesorabili e spietate come gli araldi della morte.
Si librano argentee a strati
sottili, veleggiano ridendo bianche e orlate d'oro, si soffermano a riposare
tinte di giallo, di rosso e di azzurro.
Strisciano sinistre e lente come assassini, passano a
rompicollo come folli cavalieri, pendono tristi e sognanti in pallide altezze
come malinconici anacoreti.
Assumono la forma di isole beate o di angeli,
somigliano a mani minacciose, a vele schioccanti,
a gru trasmigranti.
Si librano fra il cielo di Dio
e la povera terra come l'umana nostalgia.
Sono i sogni della terra che
si stringono al cielo puro.
Sono il simbolo del viaggiare,
della ricerca, del desiderio e della nostalgia.
E come pendono pavide,
caparbie fra il tempo e l'eternità!
Oh, le nuvole belle, sospese e
instancabili.
Ero fanciulla e le amavo, guardavo e non sapevo che
anch'io sarei passata come una nuvola attraverso la vita, migrando forestiera
dappertutto e sospesa fra il tempo e l'eternità.
Fin dall'infanzia mi sono state amiche e sorelle.
Non posso passare per la strada senza che ci scambiamo
un cenno, che ci salutiamo e ci soffermiamo a guardarci.
Né ho dimenticato ciò che
allora da esse imparai: le loro forme, i colori, i lineamenti, i loro giochi,
le danze, i riposi e le loro strane storie terrene e celesti.
Come il mio umore assomiglia alle nuvole caparbie e
sognanti, nel terrestre mondo degli umani!
***
Un viaggio a ritroso
di Lucìa Accerbonì
La sala si stava riempiendo di gente, perlopiù di una
certa età, che, ancora prima che iniziasse il reading poetico, si affrettava a
complimentarsi con l'autore per questa sua nuova fatica letteraria.
Clara
osservava un po' distaccata la sala e si stava chiedendo come avesse fatto a
finire dentro a questa manifestazione, scrivendo addirittura la prefazione al
libro di poesie che sarebbe stato presentato di lì a poco. Solo la sua amicizia
nei confronti dell'autore poteva spiegare l'aver accettato quest'incombenza,
lei, che non era propriamente un'esperta di poesie, ma solo una scrittrice di
racconti, anche se di un certo successo.
L'inizio dell'evento fu ritardato di
alcuni minuti per dare modo agli ultimi arrivati di trovare posto e poi Clara
prese il microfono e iniziò la sua presentazione.
Parlava a braccio, non aveva
nulla di scritto, ma era dotata di buona memoria e sapeva perfettamente quello
che doveva dire, visto che all'inizio dell'incarico aveva buttato giù un testo,
che aveva limato e rifinito un paio di volte. Alcune poesie, scelte con cura
assieme all'autore, venivano presentate e lette da Clara che poi si soffermava
su alcuni passaggi significativi, coinvolgendo il pubblico nella discussione
critica.
Il tutto durò poco meno di un'ora e poi gli ospiti sciamarono in una
saletta accanto, dove un sontuoso buffet invitava alla socializzazione.
Clara
si soffermò a parlare con alcuni dei presenti e poi si avvicinò al tavolo con
l'intenzione di prendersi un aperitivo analcolico e qualche tartina.
Facendosi
largo tra la gente urtò leggermente una coppia che stava davanti al tavolo: si
scusò e si mise di lato per permettere loro di spostarsi verso un angolo della
sala.
Giudicò che avessero più o meno la sua età, lui i capelli bianchi
leggermente mossi, lei castana con le mèches. L'uomo, ancora di spalle, portava
un abito grigio di ottimo taglio ed era di corporatura piuttosto robusta, anche
se l'altezza ne mitigava un po' la robustezza.
Quando si girò a Clara mancò il
respiro: rimase con il bicchiere a mezz'aria ed il piattino con le tartine che
rischiava di cadere; il tempo si stava srotolando velocemente all'indietro ed
un'altra persona si sovrapponeva perfettamente all'immagine dell'uomo che la
stava fissando e le stava dicendo: "Permesso" facendole chiaramente
intendere che desiderava spostarsi.
Clara trovò una poltroncina libera e si
lasciò cadere continuando a fissare l'uomo che aveva trovato posto appena più
in là assieme alla moglie e che stava conversando con l'autore che in quel
momento era in piedi accanto a loro.
Non aveva bisogno di chiedere allo
scrittore chi fosse la coppia, sapeva esattamente chi fosse l'uomo, anche se
erano passati più di cinquant'anni dall'ultima volta che lo aveva visto.
La
ragione le disse di ignorare il tutto, ma il cuore non si rassegnava e
l'occasione non si sarebbe certamente mai più ripresentata.
Clara non ritornava
molto spesso nella sua città di origine e lo aveva fatto solo per presentare il
libro di poesie di un caro amico.
L'uomo, che adesso aveva un nome (Giorgio),
non sembrava averla riconosciuta e un po' le dispiacque: decise,
impulsivamente, di farsi avanti e andasse come doveva andare.
Il poeta si girò
in quell'attimo e colse l'occasione per presentare Clara alla coppia e lei,
dopo un "Piacere" appena mormorato, si rivolse decisamente all'uomo
con tono alquanto scherzoso: "Terza A, penultimo banco in fondo a sinistra
entrando, un anno compagno di banco di Ugo e gli ultimi due anni di Dario, sei
arrivato in terza superiore dal collegio e all'inizio ci snobbavi un po'."
Giorgio osservò Clara con aria smarrita, sembrava che la sua mente fosse
intenta ad aprire vari cassetti della memoria fino a trovare quello giusto che
gli consentisse di inquadrare la persona che gli stava davanti.
"Ah..." disse "adesso mi ricordo, sei la secchiona che sedeva su
un banco della fila accanto alla finestra. Scusa se uso l'appellativo
secchiona, ma era quello che ti avevamo dato all'epoca, quando tutti, chi più
chi meno, ricorrevamo a te per le traduzioni di tedesco o le scritture
contabili di ragioneria."
Le strinse la mano con vigore, lo sguardo
diretto negli occhi di lei, il sorriso aperto, lo stesso di quando era ragazzo.
La conversazione scivolò su argomenti banali, del tipo cosa hai fatto in tutti
questi anni (valeva per tutti e due), sei sposata, hai figli, come mai ti
dedichi alla letteratura ed alla poesia. La moglie di Giorgio si era
allontanata verso il tavolo del rinfresco, lasciando loro il tempo di
ritrovarsi.
Clara precisò che si trovava lì solo per fare un piacere
all'artista e che, non abitando più da anni nella loro città, la sera stessa
sarebbe rientrata a casa.
Giorgio rimase un po' spiazzato e poi azzardò una
richiesta che la sua mente aveva formulato in quell'istante: "Vorrei
rivederti per parlare un po' dei nostri tempi, se ritorni fammelo sapere e nel
frattempo dammi il tuo indirizzo mail in modo che possa contattarti per
metterci d'accordo."
Clara gli porse un suo biglietto da visita, sicura
che la cosa sarebbe finita lì.
Ma dovette ricredersi quando, alcuni giorni
dopo, una mail di lui lampeggiava sullo schermo del computer. L'aprì con un po'
di batticuore, sembrava una ragazzina al suo primo contatto con un filarino.
Giorgio ripeteva il suo piacere per averla rivista, dava alcune notizie sulla
sua vita personale e le rinnovava l'invito per un prossimo incontro che,
sperava, sarebbe avvenuto a breve.
Clara agì d'impulso e fissò giorno e ora,
appuntamento in un noto locale storico del centro.
Decise di prendere il treno, voleva riannodare le fila
dei ricordi e per farlo non doveva essere impegnata nella guida, ma lasciarsi
andare al ritmo cadenzato di quella strada ferrata che era rimasta tale e quale
dall'epoca della sua giovinezza.
Una stazione completamente rinnovata la spiazzò un
poco e faticò a districarsi tra tutti quei negozi che la facevano sembrare un
centro commerciale, fino a trovare l'uscita principale ed affacciarsi
sull'ampia piazza, per poi imboccare il lungomare.
Il caffè dell'appuntamento
non distava molto dalla stazione e Clara vi giunse in una decina di minuti.
Giorgio era seduto all'esterno e si alzò educatamente per spostarle la sedia e
farle posto di fronte a lui. Ordinarono due caffè. Dopo che furono servite le
ordinazioni e passati i primi convenevoli "Hai fatto buon viaggio, come
stai, ti trovo bene, grazie per aver accettato il mio invito" Clara
affrontò la situazione di petto e gli propose una passeggiata della memoria.
"Da dove iniziamo?" chiese Giorgio. "Dalla nostra scuola, visto
che non siamo lontani".
Giorgio la prese a braccetto e si avviarono di
buon passo verso quello che era stato il loro vecchio Istituto. La facciata era
stata recentemente rinnovata ed il colore ocra brillava al sole del pomeriggio.
Clara indicò una finestra dell'ultimo piano e disse piano, quasi parlando a se
stessa: "Dal mio banco vedevo il mare, mentre tu, seduto alla parte
opposta, eri quasi addossato al muro. Ricordo quando arrivasti, eravamo in
terza e avevi un'aria spaesata e ti infilasti nel banco, accanto ad Ugo, senza
fiatare e con gli occhi bassi. Mi piacesti fin da quell'istante."
Giorgio
non rispose subito, sembrava voler scegliere con cura le parole. "Venivo
da un collegio severo, i miei si stavano separando ed io ero stato affidato a
mia madre, pur vedendo mio padre tutti i giorni (questo Clara lo sapeva). Se ti
dico che ero terrorizzato, non mi crederesti, ma è la verità: la mia vita stava
cambiando in peggio ed io non sapevo come affrontare tutto questo, ma posso
dirti che in quella classe ho trovato fin da subito dei bravi compagni che poi
sono diventati buoni amici e con qualcuno ci vediamo ancora."
Nel
frattempo avevano fatto il giro dell'edificio e si stavano incamminando verso
la parte vecchia della città con l'idea poi di arrivare sul Corso.
Attraversarono una piazza e si infilarono in una galleria che ospitava dei
caffè e dei negozi.
"Ti ricordi" disse Clara "lì c'era il negozio
di tua madre ed io ci passavo davanti con la speranza di vederti fuori
dall'orario di scuola".
"Mi ricordo, ma mamma tenne il negozio per
poco tempo, perché i problemi di salute di cui soffriva si acuirono e dovette
cedere l'attività".
"Era molto bella e so che l'amavi molto, mi
dispiace che sia morta ancora giovane."
Uscirono di nuovo sulla piazza e
imboccarono il Corso.
"Qui, al posto di questo negozio, c'era un piccolo
bar dove gli studenti venivano a prendersi l'aperitivo. Ci venivi anche tu -
disse Clara - ed io andavo su e giù per il Corso nella speranza di incontrarti.
Qualche volta io e la mia amica Viviana, risparmiando sui soldi del biglietto
dell'autobus, ci concedevamo un aperitivo, io sperando di incontrare te, lei
sperando di vedere il ragazzo che occupava i suo sogni: a lei è andata meglio
di me, il ragazzo dei suoi sogni se l'è sposato."
Giorgio era sempre più
spiazzato e disse a Clara: "Non so quale sarà la prossima tappa, ma ormai
mi hai talmente incuriosito che ti seguirò senza fiatare. Lasciami solo il tempo
di andare un attimo in negozio a dare alcune istruzioni alle commesse e poi
continueremo il nostro itinerario della memoria."
"Il negozio"
pensò Clara, il regno del padre di Giorgio e adesso del figlio.
Quando Giorgio
usci, non riuscì a trattenersi: "Sei uguale a tuo padre. Eri uguale a lui
anche da giovane, l'unica differenza era il colore dei capelli: bianchi i suoi,
castani i tuoi. Anche il modo di camminare era lo stesso, rivedendo te rivedo
lui. Era un bell'uomo e lo sei ancora anche tu."
Clara prese una ripida salita che portava sul colle.
Un vento settembrino malandrino le scompigliava i capelli ed il grido dei
gabbiani giungeva sino lassù.
Il mare era tutta un'increspatura ed il sole iniziava
lentamente il suo tramonto, fiammeggiando i bianchi edifici e le cupole delle
chiese.
"Sono venuta fin quassù perché qui abbiamo fatto in quarta
superiore una foto di gruppo, con me in prima fila e tu nell'ultima. È una foto
che conservo ancora e che ogni tanto riguardo, perché non voglio dimenticare
quella che ero ed i sogni che occupavano allora la mia mente. Voglio essere
sincera, d'altronde la sincerità è una cosa che le persone anziane si possono
permettere. Ti ho amato fin dal primo istante che ti ho visto, tu non sai
quanto male mi facevi quando venivi da me a farti tradurre in tedesco le tue
lettere sdolcinate alla fidanzatina svizzera che avevi incontrato al mare. Te
la ricordi? Ho consumato le scarpe a furia di andare avanti e indietro dal
negozio di tuo padre a quello di tua madre per riuscire ad incontrarti e tu,
niente. È proprio vero che il primo amore il più delle volte non è corrisposto,
è a senso unico. Ti sarò sembrata stupida e forse ne eri anche infastidito, e
mi scuso per questo, ma dovevo dirtelo. E poi la mia lunga malattia ha interrotto
tutto questo. A distanza di anni posso dire che mi ha cambiato la vita, mi ha
costretta a delle scelte che forse non avrei mai fatto. Ma mi ha fatto male non
aver ricevuto neanche una tua visita in ospedale, mentre gli altri compagni di
classe sono venuti tutti e anche più di una volta. Non te ne faccio una colpa,
sono passati talmente tanti anni che non vale nemmeno la pena parlarne. Ecco,
sono venuta fino qua per dirti tutto quello che il mio cuore ha conservato
gelosamente in un angolino per tutti questi anni. Speravo, durante gli anni
dell'università, di suscitare il tuo interesse, ma evidentemente non era
destino. Ho avuto una vita piena, ho conseguito gli scopi che mi ero
prefissata, ho un marito che amo e non cambierei nulla, mi va bene così, anche
il ricordo del primo amore non corrisposto."
Giorgio, che nel frattempo si
era seduto sul muretto, si alzò, allargò le braccia e Clara vi si rifugiò,
decise che per una volta, una sola volta, voleva essere abbracciata da lui.
Dopo alcuni minuti Giorgio trovò la parola: "Siediti", le disse,
"che adesso parlo io. Mi ero accorto che mi morivi dietro, ma ero timido e
mi incutevi una certa soggezione. Troppo brava a scuola, una leader tra le
compagne. Ugo, il mio compagno di banco, era catturato da te, che, seppure non
fisicamente appariscente, avevi un fascino discreto. Quando ti ammalasti, per
me fu un duro colpo. Avevi la stessa malattia di mia madre e questo mi
spaventò: non volevo vederti finire come lei, se non peggio, e non sapevo come
gestire la situazione. Non ebbi il coraggio di venire a trovarti in ospedale,
fui un autentico codardo, ma devi capirmi. Troppo giovane per affrontare le
difficoltà della vita, mentre tu ti dimostrasti quella che veramente eri. Una
combattente, una che non aveva paura di niente. Quando riprendesti gli studi e
ti vidi all'università, non ebbi il coraggio di farmi avanti, eri sempre al
disopra di tutti e macinavi esami su esami, come se volessi rifarti di quello
che la vita ti aveva inferto fino allora. Quando poi te ne andasti in Francia e
lasciasti successivamente la città per motivi di lavoro (questo me lo disse
Angelo, te lo ricordi, era un altro che ti faceva il filo), invece di cambiare
il destino, mi adagiai nella mia quotidianità e finii per passare la mia vita
tra lo studio da commercialista ed il negozio. Il resto lo sai. Non rinnego
nulla, ho una bella famiglia, come la tua del resto, ma mi sono chiesto sovente
- immagino come te del resto - come sarebbe stata la mia vita con te accanto.
Ecco, vedi, è la giornata dei ricordi e forse anche dei rimpianti, ce lo
dovevamo, anche se è trascorso quasi mezzo secolo."
"Ho sempre
sperato di poter un giorno, aprire con te il cassetto dei miei sogni, era un
pezzo della mia vita rimasto irrisolto: ti sembrerà stupido e banale, un
capriccio da vecchia signora, ma me lo dovevo, perché nonostante tutta
l'indifferenza che tu ti sforzavi di dimostrarmi all'epoca, a me era sembrato
che non ti fossi poi tanto indifferente come volevi far credere. Ora è tempo di
chiudere definitivamente a chiave i cassetti segreti, non meritano di essere
riaperti, il percorso più lungo della nostra vita ce l'abbiamo alle spalle, ora
non ci resta che godere delle piccole cose di ogni giorno, senza vivere di
rimpianti su quello che avrebbe potuto essere e non è stato. Ti sono grata per
avermi voluta rincontrare e sarò ben felice di rifarlo, in futuro, se lo
vorrai, da buoni amici."
Si avviarono giù per la discesa mentre il sole
stava affogando nel mare, ed il vento, che era leggermente aumentato di intensità,
rotolava nella stretta viuzza, aspro e pungente in quell'ultimo scorcio
d'estate prima che l'autunno arrivasse a rosseggiare i colli e a portare odori
e sapori mai dimenticati.
***
L'importanza di chiamare: "Papà"
(Viaggio nell'infanzia che vorresti dimenticare) di Davide Zambon
Questo che sto per raccontare
avveniva nel 1961, avevo 11 anni e vivevo con la mia famiglia a Milano. Eravamo una famiglia povera ma dignitosa.
Mio Papà svolgeva due lavori,
magazziniere e cameriere, usciva alla mattina alle 6, per ritornare alla sera
verso le 10.
Mia Mamma faceva la domestica
per mezza giornata.
Ricordo che un giorno
improvvisamente mia mamma si sentì male, ebbe un attacco cardiaco, le mancava
il respiro, venne ricoverata d'urgenza all'ospedale.
La diagnosi fu di una grave
malformazione alla valvola mitralica, avrebbe dovuto essere operata con una
certa urgenza.
Quel tipo di intervento era molto rischioso all'epoca,
la probabilità di sopravvivenza era del 50% . Parecchi pazienti morivano
durante l'operazione chirurgica.
Mi
ritrovai a casa senza la Mamma, che avrebbe dovuto stare per molto tempo in
ospedale.
Una nostra cugina, molto legata alla famiglia venne a
vivere da noi per accudirmi, visto che il Papà non era mai a casa.
Proprio quell'anno avevo
iniziato il primo anno di Scuola Media, che nel mio caso era ad indirizzo
tecnico/industriale, cioè dopo i tre anni era abituale iniziare a lavorare,
visto le ristrettezze economiche della famiglia.
Con l'improvvisa assenza della
figura di mia mamma mi sentii fortemente a disagio: il papà sempre impegnato al
lavoro; mia cugina, che allora aveva 19 anni, non poteva certo essere la figura
paragonabile alla mamma.
Devo anche dire che con mio
padre non avevo nessun tipo di dialogo, avevo - come si dice - una soggezione
pazzesca, aggiungo poi che fino ad allora non lo chiamavo Papà.
La memoria
non mi aiuta, perché non ricordo nemmeno come facevo a parlargli.
In quel periodo la sensazione
che avevo era di essere in balìa degli eventi e di non potermi confidare con la
mamma che era il mio riferimento; a parte i nonni, che però vivevano in Friuli,
quindi molto lontano.
Avvenne
poi il fatto che mi segnò profondamente.
Un giorno, dopo aver fatto un
compito in classe, se ben ricordo un tema d'italiano, l'insegnante mi consegnò
il tema con le correzioni e il voto, ricordo che poteva essere un "4"
e che avrei dovuto farlo firmare dai genitori!
Con quale
coraggio avrei potuto dirlo al papà?
Mai avrei potuto dirlo alla
mamma che era in ospedale sofferente; nella mia testa cominciò a delinearsi una
via di fuga: non andare a scuola; ciò mi permetteva di sospendere la soluzione
del problema.
Nessuno mi
controllava, avrei potuto "bigiare" senza rendere conto a nessuno.
Il giorno dopo iniziai,
anziché andare a scuola, a girovagare per la città.
Cosa facevo? Andavo nei grandi magazzini - vedi
Standa, Upim, ecc.. - qualche volta mi fermavo ai Giardini seduto sulla
panchina, bighellonavo, in attesa che arrivasse l'ora del rientro, poi arrivavo
a casa.
Nessuno chiaramente si informava di come era andata la
giornata a scuola; ben altri problemi e pensieri penso erano nella mente di mio
papà.
Ogni pomeriggio preparavo la stessa cartella della
scuola, la riempivo delle cose da portare alla mamma, prendevo il tram e andavo
in ospedale da solo.
I giorni passavano, era ormai
una settimana che mi assentavo da scuola; decisi che avrei dovuto ritornarci,
ma come fare??
Falsificai la firma della
mamma e consegnai il tema così firmato all'insegnante.
Chiaramente fui subito smascherato, sia per la firma
falsa, che per l'assenza ingiustificata di una settimana. Vi risparmio cosa
avvenne dopo, posso però dire che il papà non mi ammazzò di botte. Se non
ricordo male forse ebbi delle belle sculacciate sul sedere.
Ma quello che mi fece più male
fu la vergogna verso i famigliari e i conoscenti, tutti a sentenziare, tutti a
condannare il mio comportamento; non sentii da nessuno qualche considerazione
di comprensione.
Nel frattempo la mamma venne operata e ritornò a casa
dopo un lungo periodo di degenza,.
Vidi in quei momenti mio papà
piangere di nascosto, capii la sua angoscia, ma non riuscii mai a sbloccarmi
per gettargli le braccia al collo e dargli un bacio.
Anzi, ero contento quando era fuori casa, mi sentivo a mio agio solo con la mamma.
Riuscii a chiamarlo PAPÀ solo quando avevo già 18
anni.
Sebbene il papà mi incutesse timore e soggezione, in
tutta la mia infanzia debbo però dire che mi ha dato pochi scappellotti; quello
che è mancato di più è stata la confidenza del dialogo, la possibilità di
chiedere consigli sui temi da affrontare nella tua crescita.
Come si suol dire, mi sono fatto da solo, ho preso
molte decisioni anche sbagliate, senza poterne parlare al papà.
Ritengo che la cosa più
importante e più bella per un figlio è quella di poter dialogare con i propri genitori,
perché in certi momenti della tua vita sono il riferimento, il faro che ti
aiuta a tenere la barra dritta!!
***
Lettera a Magda
di Peter Nemnich
Ciao Magda,
ti scrivo dopo tanto tanto
tempo.
Credevo di averti dimenticata,
ma sei sempre rimasta in un anfratto della mia mente.
L'averti ritrovata è merito
della professoressa Marta Roghi, nostra insegnante di letteratura
all'Università della Terza Età.
Diceva giorni fa: "Perché
non provate a scrivere una lettera a una persona alla quale non avete mai
scritto, oppure a una cosa, un albero per esempio, etc, etc."
Ricercando persone alle quali non ho mai scritto
lettere, sentire le parole Marta - Università mi ha fatto rimbalzare Magda -
Università.
Già, tu: Magda, deliziosa
ragazza, profuga dalla Cecoslovacchia, nata a Praga, prima Università di lingua
tedesca fondata nel 1348. All'epoca, ci siamo incontrati casualmente in una
sala da ballo, a fine febbraio, tempo di carnevale.
Accompagnavo, assieme ad altri ragazzi, un mio amico
per festeggiare il suo compleanno.
Ricordo che non avevo tanta voglia di ballare quella
sera e così guardavo in giro mentre gli altri erano già in pista per divertirsi
ed allacciare nuove amicizie.
Vidi te, seduta vicina ad una tua amica attorno un
piccolo tavolino, stavate bevendo Coca-Cola.
Ma, mentre l'altra ragazza accettava tutti gli inviti
a ballare, tu rimanevi seduta scuotendo solamente la testa alle richieste dei
vari ragazzi.
Dopo un po' gli amici cominciarono a stuzzicarmi
perché non partecipavo al ballo:
"Cosa hai stasera, datti una mossa, ci sono tante
ragazze! Non fare il sacco di patate! Siamo usciti per divertirci, o no?"
Ricordo che, per non fare la
figura del guastafeste, promisi che al prossimo giro avrei ballato anch'io.
Decisi di andare proprio da te, certo che mi avresti negato il ballo e cosi
avevo la scusa di stare seduto. Mi avvicinai a te e chiesi: "Signorina,
posso chiederle di ballare con me?"
Ti mettesti a ridere; del
resto questa formula antiquata fece sorridere pure me. L'avevo scelta per
facilitare il tuo rifiuto. Invece mi dicesti di sì.
Sorpreso, ti porsi la mano per
accompagnarti sulla pista da ballo. Tra un ballo e l'altro ci presentammo e alla
fine ti invitai a sederti al nostro tavolo.
Rifiutasti, se volevo potevo sedermi al tuo, tanto la
tua amica ti lasciava da sola, pensava soltanto a ballare. Accettai subito; ti
trovavo non soltanto molto carina ma anche molto simpatica.
Il tuo modo di esprimerti, il tuo leggero accento mi
incuriosiva.
Non ballavamo più, ti chiesi le solite cose e tu mi
raccontasti la tua storia.
Tuo padre, professore universitario, non potè più esercitare la sua
passione nonché professione di insegnare storia e lingua. Sotto il regime russo
la dittatura non dava spazio ad alcuna liberta e verità storica, ma soltanto
all'estrema e totale obbedienza.
Mi raccontavi la vostra rocambolesca fuga, attraverso
l'Ungheria, poi l'Austria e infine l'arrivo in Germania. Che strano, ricordo
adesso che tuo padre, dopo molto girovagare aveva trovato lavoro presso
l'Università di Wurzburg.
Tu però, spirito libero, volevi frequentare la scuola
alberghiera, sognavi di avere un ristorante e gestire un piccolo albergo in un
posto con molte montagne alte. Sciare era la tua grande passione.
Ti ascoltavo, affascinato dalla tua capacità di
raccontare, dalla tua voglia di indipendenza, dal tuo coraggio, dal tuo
candore.
Mi domandasti se ero fidanzato, ti risposi di no ma
che avevo un'amica.
Ti feci la stessa domanda e mi rispondesti: "No,
e non voglio legami di nessun tipo; voglio, devo raggiungere il mio obiettivo;
l'ho promesso ai miei genitori, altrimenti non mi avrebbero mai permesso di
allontanarmi da casa e vivere lontano in questa specie di collegio abbinato
alla scuola alberghiera."
Ti ricordi che dopo quest'ultima frase mi guardasti
spaventata?
Uno sguardo al tuo orologio da polso ti fece sbiancare
in volto: "0 Dio mio, cosa ho fatto, come faccio adesso", e
fissandomi: "Ma perché? Sono perduta, mi espellono dalla scuola, che
vergogna!" Piangevi, disperata. Ti presi le mani e domandai: "Che succede,
che ti ho fatto? Dimmi, non capisco!" "Non posso più tornare al
collegio, il portone e le porte d'entrata vengono chiuse a chiave alle 10 di
sera, nessuno degli allievi ha le chiavi e chi non risulta essere presente
all'ora della sveglia viene automaticamente espulso."
Il tuo pianto disperato mi stringeva il cuore.
"Vengo con te, - dissi - spiegherò tutto a chi
vuoi tu, è tutta colpa mia che ti ho trattenuta, capiranno, no?!"
"Non serve a niente, potresti dire anche che mi
hai trattenuta con la forza, contro la mia volontà e ancora non cambierebbe
niente."
Ricordo che ero molto dispiaciuto, mi sentivo
responsabile, ti avevo indotta a dimenticare il tempo, l'ora del rientro.
"Per salvarmi la pelle ho un'unica possibilità! -
dicevi più a te stessa che a me - Devo arrivare al portone alle 6 meno cinque
minuti precise. La ragazza addetta apre per il personale fisso che arriva alle
6 in punto perché alle 6 e mezza facciamo colazione. Ma come faccio ad arrivare
fino alle 6 di domani mattina, dove dormo, non conosco nessuno, fuori fa freddo,
forse nevica."
"Non preoccuparti" mi intromisi: "puoi
dormire da me, ho una stanza con un letto e un divano, dormo io sul
divano!"
"Sei matto, non posso mica andare in casa del
primo che incontro e passarci la notte, nel suo letto poi, ma come ti salta in
mente, ma per chi mi hai presa?"
"Scusami, non volevo offenderti, è che non vedo
altra soluzione, domani mattina ti accompagno fino al portone, ripeto, se serve
dò tutte le spiegazioni che vuoi tu."
"Bella questa, se mi vedono al portone in
compagnia di un ragazzo non posso neanche più presentarmi a casa mia."
Ricordo poi che alla fine uscimmo dalla sala da ballo
in cerca di un posto per bere un caffè caldo. Fuori faceva freddo, scendevano
alcuni fiocchi di neve, nella tua giacchetta a vento avevi freddo dopo pochi
passi. Per fortuna trovammo subito un ristoro.
La tua disperazione tornava,
ti tormentavi.
"Come faccio, impossibile
dormire fuori all'aperto!"
Mentre cercavo disperatamente
una soluzione, ti stringevi al mio braccio.
Tornavo a dire: "Ti giuro su tutto quello che
vuoi che non ti faccio niente, vieni con me al caldo, ti prendi una
broncopolmonite come minimo, non puoi rimanere fuori, qui chiudono tutto dopo
la mezzanotte, massimo all'una."
"Preferisco morie!" Ti ricordi quante volte pronunciasti queste parole quella sera?
Infine mi venne l'idea di stare nel sottoscala del condominio dove abitavo da solo.
C'era solo una vecchia sedia sgangherata, ma almeno lì non nevicava.
Avevi mille obiezioni, ma alla fine ti
convinsi che non c'erano altre soluzioni.
Aspettammo l'una prima di entrare. Piazzai la sedia vicino
al muro interno in fondo al sottoscala, posticino invisibile da chi entrava
dalla porta d'ingresso.
Sento ancora la tua voce: "Ti ringrazio di cuore,
adesso vai a letto, se riesci, svegliami domani mattina".
"Pazza te, non ti lascio da sola qui, pensa se
qualcuno per sbaglio dovesse vederti! Sto qui con te, in due ci scaldiamo a
vicenda, siediti qui sulle mie ginocchia! Il mio cappotto ci fa da
coperta." Finalmente mi ascoltavi, rassegnata. La testa appoggiata sulla
mia spalla destra, il tuo nasino sul collo mio, ti addormentasti.
lo non riuscivo a dormire per
paura di non svegliarti in tempo per il rientro in collegio.
Alle 5 e mezzo ti svegliai,
una volta usciti trovammo freddo, buio e tutto coperto di neve.
"Potresti sciare
adesso!" dissi sorridendo "Coraggio, ti accompagno fin dove vuoi tu,
non ti creerò problemi!"
Camminammo, abbracciati per non cadere, finché
arrivammo in vicinanza del tuo portone, con le scarpe inzuppate e i piedi
congelati. Il tuo grande bacio mi sorprese: "Ciao, mi hai salvato la
vita!"
Sbirciai mentre correvi verso
l'entrata.
L'addetta ti aprì giusto il tempo di farti entrare senza altri testimoni.
Fu l'ultima volta che ti vidi.
So per certo che non ci furono conseguenze negative
per te a parte un forte raffreddore, ma quello me lo beccai anch'io.
Fui contento lo stesso.
Averti riscoperto e ricordato mi ha emozionato e anche
se questa lettera non arriverà mai a te, il mio pensiero, portatore di un
bacio, ti raggiungerà di sicuro.
Peter - il ragazzo del sottoscala
***
Il mio primo viaggio
di Valeria Pederiva
Ero partita per la Svizzera da
sola, non avevo mai visto un treno prima e ora dovevo addirittura salirci per
andare a Basilea dove, ad aspettarmi, c'era mia sorella maggiore.
lo avevo 18 anni, ero di una
ingenuità e di una ignoranza spaventose e tutte le raccomandazioni ricevute mi
avevano allarmato non poco.
Lo scomparto dove ero salita
era vuoto ma ben presto si riempì di studenti chiassosi, lo me ne stavo sulle
mie, e loro facevano di tutto per attirare la mia attenzione.
Arrivati alla stazione di
Padova il treno cominciò a prolungare la sosta in modo inspiegabile, quindi
preoccupata di arrivare in ritardo mi decisi a chiedere a quei ragazzi se
sapevano la ragione di quella lunga fermata.
Uno di loro doveva avermi ben
soppesata perché rispose:
"Devono aver bucato una
ruota e la stanno cambiando..."
Risposi: "Ma quanto ci
mettono a cambiarla?"
Si scambiarono fra loro una
strana occhiata e un altro aggiunse:
"Sai, qui siamo a Padova,
il paese dei frati francescani, che ora saliranno a confessare tutti i
viaggiatori; chissà quanto tempo ci vorrà ancora!"
Io ero molto preoccupata perché
mia sorella, non vedendomi arrivare, poteva pensare che avevo perso il treno.
Allora non c'erano i cellulari e lei non aveva nemmeno il telefono; come avrei
fatto?
Il ragazzo
aggiunse: "Ho un'idea: se tu fingi di essere la mia fidanzata e quando
arrivano i frati noi ci baciamo; loro, scandalizzati, proseguiranno senza
confessarci così guadagniamo tempo."
Io non avrei voluto confessarmi
ma nemmeno fare la figura dell'ingenua, così acconsentii.
Il ragazzo
che fingeva di fare la guardia alla porta, ad un certo punto disse:
"Arrivano!" Quello seduto vicino a me si protese per baciarmi.
lo avrei voluto sprofondare,
ma proprio allora il treno partì con uno scossone.
Ero salva, e pensai che
qualcosa di soprannaturale fosse giunto a salvarmi.
Quando raccontai questi fatti
a mia sorella, lei si spaventò.
Mi disse che si erano presi
gioco di me e che io dovevo svegliarmi!
Non lo capii subito, ma a fare
questo, poi, ci pensò la vita...
Viaggio alla fine della terra
di Vittorio Coluccia
"Ecco ... la sento, l'ho
trovata!" e subito la mano corre a frugare nella sabbia per sentire e
portar fuori l'ambito trofeo: una conchiglia di San Giacomo.
Erano in tanti quel giorno, dopo tanto camminare, con
i piedi nell'acqua bassa sulla spiaggia di Finisterre.
Avevano camminato e camminato
per giungere da buoni pellegrini a Santiago de Compostela e finalmente,
superando fatica, pioggia e a volte anche la neve e dopo aver visto luoghi
sconosciuti e sempre ospitali erano giunti alla meta. Quel traguardo a lungo
sognato e per vari motivi sempre rimandato, si era offerto ad Anna
inaspettatamente. Sorpresa, alla proposta dell'amica Valeria, aveva corrisposto
con entusiasmo e aveva preparato scrupolosamente tutto: la cartina con le tappe
da Roncisvalle a Santiago, il kit del Pellegrino con tutte le informazioni
utili, "la
credenziale" e "il
bastone", gli scarponi, vari indumenti e la giacca a vento sfoderabile, qualche
aspirina, un po' di cerotti e la mantella con cappuccio per la pioggia, la
borraccia, un ombrellino, un coltellino, pile di riserva, il cellulare e la
fotocamera.
Anna aveva superato gli
"anta", anche se diceva di esserne vicina, ed era sola dopo alcune
esperienze di coppia non felici. Brillante e carina suscitava ammirazione, ma
per la sua sicurezza e cultura spesso gli uomini le preferivano compagnie meno
impegnative, le elargivano sorrisi e complimenti e dopo un po', a disagio per
la sua colta semplicità, la evitavano e lei si ritrovava sola, un po' delusa ma
serena. Prima o poi, pensava, avrebbe incontrato quello giusto e allora...
altrimenti meglio sola!
Aveva però delle buone amiche,
quasi tutte ex compagne di studi, sposate e con figli, molto impegnate in casa
e nel lavoro e quindi poco disponibili ad accompagnarsi con una single come
lei. Per fortuna c'era Valeria, una recente amicizia che, scapola e
quarantenne, disponeva di tempo e condivideva analoghe passioni: musica,
teatro, palestra e viaggi. Erano arrivate insieme a Santiago, avevano svolto
tutti i rituali di ogni buon pellegrino, avevano ricevuto "la Compostelliana",
il
certificato del Cammino svolto, almeno 100 chilometri a piedi, ed erano
ripartite per Finisterre, dove la tradizione vuole che vicino al faro ci sia il
pilastrino con il chilometro zero e che sulla spiaggia si cerchi la vera
conchiglia di Saint Jacques, quella che l'oceano restituisce e che ognuno si
porta a casa come vero ricordo.
Ora finalmente aveva terminato
il suo cammino, pensava mentre rigirava la conchiglia fra le mani: la
perfezione di quell'involucro che la natura produce spontaneamente nel segreto
del mare la affascinava e la tratteneva lì, con i piedi a mollo, ed avvertiva
il tenero cedere della sabbia quando si bagnava al ritmo della risacca. In
breve ripensò a tutto il tempo vissuto, dalla prima e spensierata tenera
infanzia alle complicate novità dell'adolescenza e poi all'università, ai primi
amori e a quel ragazzo del Nord-Europa, biondo e con gli occhi azzurri, che per
primo le aveva ferito il cuore, e poi al primo lavoro e alla sua prima
macchina: la 127 bordeaux tanto sognata.
Tutto rivide rimirando la sua conchiglia, dimenticando
Valeria, che non vedeva più e tutti gli altri che, lontani, correvano e
correvano per non bagnarsi all'arrivo dell'onda nuova.
La marea stava risalendo e
l'oceano era irregolare, ma Anna non lo sapeva. Prima aveva tolto gli scarponi,
arrotolato i calzoni sopra al ginocchio ed era andata incontro all'acqua con un
piacere nuovo sentendosi ancora amichevolmente accolta e rinfrescata.
Aveva
fatto la sua ricerca, secondo la tradizione, con i piedi e, tra un'onda e
l'alta, si era allontanata dalla riva un bel po'. Ora aveva finalmente trovato
la sua conchiglia e poteva tornare a riva, asciugarsi i piedi, rimettere i
calzini e gli scarponi. Era serena e soddisfatta e non sentiva più la fatica di
tanto cammino.
Avrebbe con calma fatto tutto per bene, come sempre d'altronde,
si sarebbe rimesso lo zaino sulle spalle, avrebbe salutato il mare, quell'oceano
generoso, e si girò per guardarlo e godere dello spettacolare orizzonte
lontano, ma lo stupore, quasi voluto e pregustato si interruppe di colpo:
un'onda ancora lontana, anomala e più grande decisamente delle altre si
presentava sorniona e decisa a riportarla alla realtà.
Anna si sorprende con
piacere presa alla sprovvista: "Che fare?! Mi bagnerò i calzoni" e
incominciò ad indietreggiare fissando sempre l'onda che avanzava e si
avvicinava. "Beh! - si disse - in fondo è solo un'onda... il mare mi è
sempre stato amico... mi bagnerà, è vero... e allora? Rideranno di me... e che
importa... e se ridono, pazienza, passerà anche questa". Intanto aveva
recuperato una buona distanza e quasi era all'asciutto quando, non visto
nell'acqua bassa, un grosso ciuffo di alghe ben radicato nella sabbia si oppose
al suo tallone mentre lei retrocedeva con lo sguardo sempre fisso all'onda e fu
come un inciampo, il passo si arrestò e Anna, sbilanciata, si ritrovò seduta e
poi distesa sulla spiaggia.
Meravigliata e incredula si sorprese a pensare al
soffice contatto della schiena sulla sabbia e in quello l'onda arrivò per
sollevarla di peso e dolcemente adagiarla un po' più in su.
Stordita e incredula Anna rideva gioiosamente di sé e
dell'apparente assurdità di quella situazione. Ancora non si capacitava ma
rideva felice come non le succedeva da tempo, da troppo tempo e capì che le
certezze sono solo rari momenti di illusione e che la vita va presa come viene,
accettando le difficoltà e godendo sempre di quel che ti offre, di quello che
ti resta.
Ora veramente sarebbe tornata a casa bagnata ma contenta!
***