martedì 31 gennaio 2012



L’uomo arrancava a fatica per la strada assolata, lievemente in salita, che portava al paese, trascinandosi dietro l’animale. Ai lati della strada i radi cespugli anelavano la pioggia e i bianchi massi di pietra che sembravano essere stati buttati lì, a casaccio, da mani ignote, spuntavano dall’erba già quasi gialla di quella tarda primavera che stava per lasciare il posto all'estate. Giunto in cima alla salita, gli apparve il paese: un gruppo di case addossate le une alle altre, sulla destra il cimitero. In alto, sulla collina, il santuario-fortezza che dominava il paesaggio e le cui porte di accesso venivano chiuse al tramonto, come nei tempi andati quando bisognava difendersi dall'assalto dei turchi. 
L’uomo passò lentamente davanti alla scuola elementare, attirando l’attenzione della maestra e, di conseguenza, anche gli sguardi degli alunni, che lo conoscevano già e sapevano che  sarebbe arrivato prima dell’inizio delle vacanze e che lo aspettavano con ansia. 
Entrando in paese si fermò alla prima casa; ne uscì la padrona, che lo accolse con un saluto di benvenuto e lo invitò a sedersi, offrendogli un po’ di pane fatto in casa e della zuppa, scusandosi per il poco cibo, ma la guerra, si sa, era dura per tutti. Era un’abitudine che durava da anni, ormai; l’uomo era quasi di famiglia, in quel paese. 
Non si fermava mai sempre nella stessa casa, ma prediligeva questa perché aveva un bel cortile, spazioso, dove poteva fare il suo spettacolino con il suo animale, che era un orso bruno e si chiamava Marco. In attesa che i bambini uscissero da scuola e si precipitassero a vedere l’orso, si mise a chiacchierare con la padrona di casa chiedendo notizie sulle varie famiglie che abitavano in paese e sui componenti che erano al fronte. 

La padrona rispose che suo marito era sul fronte russo, i suoi figli maggiori su quello rumeno e il grosso degli uomini del paese si trovava sul fronte boemo e polacco, ai confini dell’impero. Lei tirava avanti come poteva, aveva due bestie nella stalla, un maiale, alcune galline, un po’ di orto, portava il latte a vendere in città, ma l’inverno era stato duro e lungo e il bambino piccolo, l’ultimo, aveva avuto qualche problema di salute. Non aveva notizie recenti del marito e sperava che non gli fosse successo nulla. Marija Mežnarjeva (non era il suo cognome, ma il soprannome: ogni famiglia in paese ne aveva uno, per distinguersi, visto che i cognomi si ripetevano) era una donna alta e magra con lunghi capelli biondi, lievemente striati di grigio, che portava raccolti in uno chignon, sul capo un fazzoletto nero annodato dietro, un abito nero, lungo e sopra un grembiule a fiorellini bianchi e neri. Il viso era severo e si capiva che mandava avanti la casa con  ferrea disciplina senza indulgere troppo in permissivismi e affettuosità. Parlava un dialetto sloveno in cui si mescolavano sia parole tedesche che italiane, tipico del territorio. 
Erano seduti, lei e l’uomo, ad una lunga tavola che si trovava nel cortile, sotto il pergolato di uva fragola da cui si poteva vedere quando i bambini sarebbero usciti da scuola. Il suono della campanella si udiva fino a lì e poco dopo i piccoli alunni si precipitarono fuori, ansiosi di tornare a casa a mangiare un pranzo alquanto frugale per poi ritornare nella casa dove era alloggiato l’uomo. Ivanka (aveva all’incirca 8 anni) entrò sbattendo il grande portone e salutò educatamente l’uomo, come le aveva insegnato sua madre. 
Alta e magra, una treccia di capelli castani lasciata libera sulla schiena, occhi scuri, ripose i libri di scuola e iniziò a mangiare velocemente la minestra di patate, per evitare che si freddasse,  non prima, però, di aver detto le preghiere. 
Bevve un po’ di latte e addentò con visibile soddisfazione un grappolo di ribes, che quell’anno era maturato in anticipo. 
Intanto scrutava l’orso che sembrava semi-addormentato e aspettava impaziente l’arrivo degli altri bambini, per dar modo all’uomo di iniziare lo spettacolo. Quell’uomo veniva dalla lontana Russia, diceva sua madre, dove si trovava adesso il suo papà e la bambina si era fatta indicare sull’atlante, dalla maestra, dov’era quell’immenso paese. 
Sperava che suo padre ritornasse presto, non immaginava che sarebbe tornato alcuni anni dopo la fine della guerra, all’inizio degli anni ’20, portando con sé due icone, che poi le avrebbe regalato in occasione del suo matrimonio, vent’anni più tardi e che ancora adesso fanno parte della famiglia. 
Il padrone dell’orso, uno zingaro (un mechkari, come venivano chiamati) proveniva molto probabilmente dai Balcani, come avrebbe appurato in seguito, ma la Russia colpiva molto di più la fantasia, anche perché era in guerra con il suo paese. 
Lo zingaro attese che tutti i bambini si fossero sistemati e iniziò a strattonare l’orso con il guinzaglio per farlo alzare in piedi, quindi  tolse il violino dalla sua logora custodia e iniziò a suonare dicendo all’animale: ”Balla, Marco, balla”. 


L’orso incominciò a ballare, ovvero a saltare nel sentire la musica. I bambini guardavano rapiti, senza immaginare quali crudeltà ci fossero dietro a quello spettacolo. L’orso ballava istintivamente quando sentiva la musica, memore di quando il suo padrone lo aveva addestrato facendolo camminare su una superficie di metallo rovente, che lo obbligava a saltare dal dolore, mentre contemporaneamente veniva suonato uno strumento musicale. Quell’uomo ed il suo animale affascinavano i piccoli spettatori che attendevano con ansia il suo arrivo; quell’anno era giunto un po’ in ritardo, ma la guerra, si sa, non facilitava gli spostamenti. Quando l’uomo terminò il suo spettacolino, prese congedo dalla padrona di casa, perché, disse, doveva arrivare prima di sera al paese più vicino, dove avrebbe pernottato in una stalla e la strada era un po’ lunga e l’orso doveva anche nutrirsi, lungo la strada, di bacche, radici, funghi, quello che avrebbe trovato. 
L’uomo porse a Marija Mežnarjeva un lurido straccio di tela che una volta doveva essere stato di colore bianco e lei vi mise dentro  alcune susine succose e alcune pere e un pezzetto di prosciutto affumicato, ma proprio piccolo “perché” disse “ ho dovuto barattare in città un bel po’ del mio prosciutto con zucchero e farina”. Anche l’orso ebbe qualcosa da mettere sotto i denti: alcune patate e un po’ di frutta. 
“Vi rivedrò, Ivan?” chiese lei. “Non credo” rispose l’uomo “ sono ormai vecchio e stanco e anche se la guerra dovesse finire presto, niente sarà più come prima. Si sentono brutte voci in giro, Marija Mežnarjeva,  ed è tempo che io e il mio orso ci sistemiamo da qualche parte”. “Zbogom “ (addio) disse l’uomo e da quel saluto Marija capì che non sarebbe più ritornato. 


Prima di uscire dal paese l’uomo si fermò all’ultima casa, dove abitava Sonja,  la più cara amica di Ivanka. La bambina corse dentro a cercare sua madre che se ne uscì consegnando all’uomo alcune provviste per il viaggio. I bambini, com’era consuetudine, lo accompagnarono  fino  all’uscita del paese, dove la strada bianca finiva ed iniziava un sentiero che attraversava un fitto bosco di pini per poi sbucare su una strada che costeggiava la ferrovia. Non avevano il permesso di spingersi oltre e ritornarono a casa mogi, consci che Marco non sarebbe più tornato da loro e che  il vecchio zingaro con il suo violino sarebbe stato relegato nei ricordi di un’infanzia che avrebbe segnato la fine del loro mondo e l’inizio di un altro foriero di altre tragedie.
                                                                                                                          Lucia Accerboni