venerdì 8 gennaio 2021

PANDEMIA…?

 di Vittorio Coluccia
gruppo di Scrittura Creativa - UTE Sacile
 
In questo “strano” tempo di PANDEMIA... ma cose una “pandemia”!
Un termine quasi mai usato se non da qualche specialista medico o da non ben qualificati “indovini o veggenti,” per definire situazioni difficili come “LA PESTE”, i primi o per minacciare catastrofi e punizioni divine, i secondi... per accreditarsi mirabolanti doti e impressionare i creduloni, in genere gli “ultimi”.
Poco usata e temibile, proprio perché non usuale... ora se ne sta forse abusando? Difficile una qualsiasi plausibile risposta, l'incertezza, nonostante calcoli, algoritmi, rilevamenti e statistiche, regna sovrana e quindi merita di attuare l'antico e sempre valido adagio: “fare di necessità... virtù!”
L'Italia, come mai prima, è stata suddivisa in Regioni multicolori: verdi quelle virtuose cioè nessuna, gialle quelle birichine e dispettose, rosse quelle proprio cattive, indisciplinate... quasi ribelli oppure più sfortunate magari solo perché più popolose.
Che fare quindi?
Forse basta stare attenti, essere prudenti... e basta?
Clausura forzata, quindi, obbligo di restare a casa limitando al minimo gli incontri e le occasioni di “contagio”... e così ho pensato di utilizzare questo tempo per rivedere un po' del mio passato e, con le inevitabili incertezze della memoria, ho sollevato un sottile velo di nostalgia e ho ricordato esperienze e fatti che hanno corroborato l'esperienza del vivere e dell'operare.
Riappare così, come fosse ieri, un episodio di una gagliarda gioventù:
 
Pattuglia al confine
Trieste, scintillante come un tappeto di brillanti, si stendeva pigramente verso il mare; una visione affascinante dal privilegiato balcone dal quale, si affacciava per la prima volta di notte, il giovane Sottotenente.
Il ciglione dell'alto Carso di Vedetta Alice... i profumi dell'erba secca e del salmastro cha risaliva dal mare, creavano un insieme di sentimenti e ricordi che cercavano un posto nella mente e nel cuore di Domenico ma la ragione lo riportò alla realtà: si trovava per incontrare in segreto un “informatore”, uno del luogo ben informato, dicevano, su fatti e movimenti strani che alcune voci “confidenziali” riportavano sulla vita notturna dei piccoli centri dell'Altopiano Carsico.
Tra pochi giorni sarebbe stato Natale e già comparivano le prime luci e i primi addob­bi. In quel luogo, noto come “Museo de Henriquez” per via dei tanti cimeli di guerra che vi erano stati raccolti ed esposti all'aperto, si doveva incontrare con il “confidente”, un tale che lo avrebbe informato su questi strani e mai verificati “sconfinamenti”.
 
L’informatore
Si presentò puntuale, distinto nel portamento e decisamente disinvolto e sicuro.
Alto ,con barba e baffi ben curati, in un soprabito azzurro che contrastava con la stagione ma si vedeva che era di buona stoffa e si presentò:
“Bongiorno” - disse in un chiaro accento straniero... forse balcanico.
“Buon giorno!” - rispose il tenente e allungò la mano ma l'altro non la prese.
“Allora - incalzò Domenico - che novità ci sono?”
“Questa notte... questa notte è previsto... uno sconfino... esatto non lo so... dove non lo conosco ma l'orario... credo... tra la mezzanotte e le due... Non so cosa dirvi... so che andranno alla locanda del cervo d'oro intorno all'una e mezza... stanotte!”
“Ma da dove entrano... il confine è lungo... molto lungo, mi serve qualche indicazione più dettagliata, almeno uno spazio di cinquecento metri o un chilometro...”
L'uomo coi baffi restava in silenzio, come se non avesse compreso poi, prima di allon­tanarsi disse:
”Non è poi così lungo il confine, e Gropada... quello è uno dei punti più vicini a Villa... è più vicino alla stazione del Tram e la stazione è un luogo molto impor­tante… è proprio sopra quella del Porto... parlo di quello di Trieste... che dall'altra parte dicono... a loro ritornerà”
“Bene - rispose il tenente che aveva intuito - grazie... ci penseremo.” 

E si salutarono. 
Nessun altro aveva ascoltato, solo lui e il confidente.
Domenico ora sapeva cosa doveva fare quella notte: avrebbe guidato la pattuglia, si sarebbe aggiunto al sergente comandante della pattuglia e avrebbe portato i suoi uomini proprio dove c'era tutto quello che serviva: la stazione, la città e la stazioncina del tram di Opicina, o di Obcjna come dicevano loro, la gente dell'Altopiano.
L'abitato di villa Opicina distava solo due chilometri da Fernetti ma questo era un Posto di Confine controllato, Gropada era un valico secondario.
Era chiaro quindi che dalle sibilline parole dell'informatore lo sconfinamento sarebbe avvenuto nei pressi di Padriciano per poi raggiungere, magari con qualche compiacente, villa Opicina e poi verso la città di Trieste, forse utilizzando anche il tram che collega villa Opicina con la stazione centrale di Trieste.
Messo al corrente il Comando del suo reparto, Domenico preparò la pattuglia scegliendo il personale più idoneo, e poi uscì presto, una volta calata la sera, per raggiungere la località che aveva definito probabile o come la più probabile.
Alla loro destra una lunga fila di “picchetti”, pilastrini di cemento, saliva agile e sicura verso l'alto segnando una quasi regolare mezzeria nell'ampia e spoglia striscia di terreno che materializzava il confine fra l'Italia e la Jugoslavia: quaranta metri di terra di nessuno, venti per parte.
Nella notte buia e silenziosa la Pattuglia al confine aveva lasciato i due auto­mezzi con gli autisti in una radura a valle ed aveva raggiunto, dopo una piccola mar­cia, il “confine”: doveva controllare proprio che questo venisse rispettato.
Spesso alcuni abitanti dell'Altopiano segnalavano delle irregolarità come lo spostamento dei “picchetti” verso l'Italia, a volte di alcune centinaia di metri, o lo sconfinamento notturno di tra­cotanti “Graniciari” che si presentavano a bere e a mangiare nelle “osmizze” di Villa Opicina e di Basovizza con la sicurezza di chi è nel proprio territorio, con quell'aria da “padrone di casa”, spesso accentuata ad arte.
Abusi e spavalderie ben accolte dagli abitanti dell'Altopiano che ancora non sapevano bene cosa e dove fosse l'Italia e temute dai pochi che vedevano in questi episodi delle vere e proprie provocazioni ed istigazioni ad un antico irredentismo jugoslavo.
Stavano per scadere i venti anni del Concordato del '55, quando gli Anglo-Americani lasciarono Trieste dopo aver diviso quella tormentata popolazione in Zona A e Zona B. Molti, nella Zona B, aspettavano questa scadenza per annettersi la Zona A e soprattutto Trieste.
I “Graniciari” erano le loro “Guardie confinarie” e venivano solitamente da paesi lontani come la Bosnia o la Macedonia, erano alti e robusti e portavano spesso folti e ritorti baf­foni; parlavano solo la loro lingua o addirittura il loro dialetto, incomprensibile a noi, ma non agli abitanti dell'Altopiano con i quali in qualche modo si intendevano; difficilmente però capivano i napoletani e i siciliani: era questa una delle realtà dell'Altopiano carsico a ridosso di Trieste.
 
Lo scontro
L’orecchio attento del Tenente si stava misurando con il territorio; il buio ormai era definito, impenetrabile e imperscrutabile per cui egli si affidava all'udito, ma lo scalpiccio sulla neve fresca dei passi della pattuglia creava quell'insieme di suoni e piccoli rumori che confondevano la oleata sensibilità del suo udito.
A un certo punto si fermò, alzo la mano, fermò la pattuglia e fece segno, col dito alla bocca, di fare silenzio; tutto tacque e Domenico acuì tutti i suoi sensi come quando, nelle profondità marine, percepiva le vibrazioni di piccoli esseri che si muovevano nell'oscurità, soprattutto dei polpi che si mimetizzavano con le alghe tra i sassi del fondale.
Percepì qualcosa e indicò col dito la direzione da cui poteva provenire un qualche rumore, lo indicò al sergente, ne richiamò l'attenzione.
Dovevano cercare di ascoltare bene in quella direzione per capire che cosa potesse essere: un animale, un capriolo, un animale notturno o qualcos'altro di più ingombrante sotto tutti i punti di vista.
Si trovavano in territorio italiano e si sentivano tranquilli, per questo quindi si disposero ad aspettare; si accovacciarono e si guardarono negli occhi e la pattuglia fu schierata in maniera circolare per controllare tutte le provenienze: al centro fu schierato il capo arma con la mitraglia, la MG 42/59, al suo fianco il servente con la cartucciera lunghissima pronta per essere utilizzata, circa 1000 colpi, e tutti gli altri a semicerchio.
Il Sergente a sinistra e a destra Domenico, l'unico in piedi a controllare velocemente da destra a sinistra con l'occhio vigile.
Tutti i suoi sensi erano allerta come nelle profondità del mare ma il leggero vento che veniva da nord-est, quella bora che veniva a raffiche brevi e ripetute, gli portava suoni lontani, rumori del mare che si confondevano con qualche scalpiccio non proprio vicino, ma c'era, e questo lo teneva in guardia.                                                                                                                                
Restarono fermi mentre quei rumori si avvicinavano e quando furono a poca distanza e già si distingueva che erano in tre:
“ALT...CHI VA LA!“ intimò Domenico urlando.                                    
Quelli si fermarono ma non risposero.                                                            
CHI VA LA!'“ ripeté ,ed ebbe una risposta che proprio non si aspettava:
“STOJ...!”
Domenico aveva sentito dire che era l'equivalente del suo “ALT”...
La situazione si era fatta molto complicata: Domenico e i suoi erano pronti, le armi in pugno, e confermavano la padronanza del territorio; gli altri facevano altrettanto.
Tutto intorno era silenzio e anche fra di loro.
E allora Domenico gridò:
“Cosa fate in territorio italiano? Questa è Italia... ripeto... Italia, voi siete in Italia, qui... ITALIA!” “No - provò a rispondere quello che sembrava il capo - Noi Jugo... qui Jugo!”
Era chiaro che questa pattuglia nemica non aveva capito dove si trovasse o non voleva capire; voleva aver ragione e con gesti violenti e precisi mimò di mettere giù le armi, le armi degli Italiani... e questo non era possibile.
La tensione era altissima e il nero della notte si poteva tagliare col coltello.
Le due parti erano sul punto di usare le armi quando una voce, in uno stentato italiano irruppe nel silenzio e nel buio
“Fermi fermi... c’è un errore... fermi c’è un errore!”
“Chi è che grida nella notte ...? vieni avanti e fatti riconoscere” urlò Domenico e accese la torcia.
“Comandante - fece ancora la voce - c’è un errore, aspettate!”
Finalmente dal buio comparve una figura minuta, curva e mal vestita che si sbracciava per calmare la situazione e farsi comprendere.
“Tenente... c'è un errore... un errore”
“Chi sei...? e spiegati bene!”
Intanto, sia i tre graniciari che la pattuglia, avevano le armi in pugno con le sicure tolte e il colpo in canna, pronti a fare fuoco.
“Avanti spiega - intimò al nuovo arrivato Domenico – qual è l'errore, che succede, perché sono qui queste persone e tu da che parte stai... sei dei nostri o dei loro…?
”Io sono vostri, comandante, sono vostri - si affrettò a rispondere quella specie di interprete - e questi amici si sono sbagliati... pensano di essere a Jugo.”
“Ah, quindi sono vostri amici... bene, ditegli di mettere giù le armi a terra e di allontanarsi indietro di tre passi!”
In una incomprensibile pantomima di gesti e di parole il piccoletto spiegò, si ripeté ancora una e due volte ma niente, quelli non volevano sentire ragioni; bofonchiavano, sbuffavano e continuavano a tenerli sotto tiro.
Allora Domenico decise di giocare l'ultima carta; un'ultima carta che poteva essere molto pericolosa, ma non aveva scelta.
“Ascolta, amico - fece all'interprete - dì pure allora che sono circondati, che sono sotto tiro e che non scherziamo!”
Ma anche stavolta, nonostante i ripetuti sforzi, quelli non cedettero; erano duri e non si muovevano di un passo e con le armi sempre in pugno.
Allora Domenico si voltò a sinistra e disse a voce alta:
”Picchio... fai sentire il suono della tua chitarra!”
... TAH...TAH...THAN...
Tre colpi in fila squarciarono il silenzio della notte come un suono di campane a distesa. 
Il caporale Picchio, capo-arma mitragliere, poco lontano e istruito in precedenza, aveva fatto partire una breve raffica di colpi e fu sufficiente: i tre graniciari capirono il pericolo e velocemente buttarono giù le armi ritirandosi con le mani alzate.
“Bene... molto bene - esclamò Domenico sollevato - raccogliamo le loro armi e andiamo tutti al Posto di Polizia di frontiera di Fernetti... anche lei - rivolto all'interprete - viene con noi, e tu Picchio, rientra e con il Sergente e tieni sotto tiro questa gente…!”
La piccola colonna si mosse in silenzio, raggiunse gli automezzi e poi il Posto di Frontie­ra.
Tra la meraviglia degli agenti vennero consegnate le armi e i tre graniciari furono rinchiusi in una stanza vuota.
“Signor Tenente… ora prepariamo il verbale - disse il Capoposto - e intanto chiamo la Questura di Trieste... devono sapere subito... Pronto, sì... pronto, chiamo da Fernetti... la nostra Pattuglia al Confine, quella dell'Esercito... sì, ha intercettato in territorio italiano tre graniciari e li abbiamo qui in custodia... man­date un automezzo per la traduzione al carcere... sì... aspetto una vostra chiamata... a dopo”.
Domenico tirò un respiro di sollievo: l'operazione si stava concludendo nel migliore dei modi.
Lui e i suoi uomini avevano corso un grave pericolo; l'equivoco, la testardaggine dei graniciari, la non conoscenza della lingua... poteva scapparci il morto... e poi?
Era successo tutto in modo inverosimile, come in un film… e in quella squillò il telefono.
“Chiamano da Trieste? - pensò - sarà la Questura... ma perché suona ancora e nessuno risponde?”
Lentamente, uno ad uno i poliziotti e i suoi uomini scomparivano mentre riapriva gli occhi e cercava la sveglietta sul comodino...

Domenico si trovò nella sua stanzetta dove dopo cena si era concesso una pennichella... 
Era stato solo un sogno!
Si alzò, si lavò il viso, controllò la sua pistola e il radiotelefono e scese nel cortile dove lo aspettavano il sergente, Picchio e gli altri della Pattuglia.
“Sergente... tutto in ordine?... Tutti pronti?”
“Signorsì, signor Tenente, possiamo andare!”
“Bene... andiamo!”
Domenico montò sulla Campagnola e partì seguito dall'agile camion CL/51 che trasportava il Sergente, Picchio con la mitraglia e tutti gli altri.
Ora, per la Pattuglia al Confine, cominciava la realtà.